La ragazza col cuore d'ardesia è sola e non lo sa.
Vive in un futuro che è sempre prossimo, promettente, inevitabile. E' costantamente sul punto d'aver appena trovato l'amicizia più grande, il lavoro definitivo, l'amore più puro. Amore che, manco a dirlo, è sempre rigorosamente eterno. E quando infine si ravvede del fallimento non ci ragiona neppure un secondo, piuttosto si limita a spostare il desiderio su un altro amore, lavoro o amicizia. Da capo.
Non fa mai tesoro di ciò che le capita, perché non ha memoria del passato, ed è convinta che l'unico modo d'essere -ed anche il più conveniente (dal punto di vista personale, sociale, lavorativo, evoluzionistico)- sia il suo. Persegue verità che mutano di continuo, e ciò non sarebbe un male, se non fosse che per l'appunto dimentica pure d'aver cambiato sistemi e valori.
La ragazza col cuore d'ardesia, nella sua attesa di qualcosa che è perennemente sul punto d'avvenire ma che mai accade, coltiva la propria eterna insoddisfazione per il mondo e non s'accorge che le cose belle, pur piccole ma belle, sono proprio là, a portata di mano, se solo smettesse di sgranare gli occhi all'orizzonte.
E' difficile volerle bene, ma è ancora più difficile non volergliene affatto.
Non l'avevo mai visto così. Le nuvole, testarde contro il sole purpureo - appena sopito -, sembravano letteralmente sciogliersi, come occhi di saltimbanco, cui il madore fa colare via il mascara dopo un'estenuante, superba esibizione.
Dopotutto, anche oggi è stato un grande show, bisogna renderne atto a chi di dovere.
Satte n'ehe 'r eh in antiqua lingua Bagraar è una espressione ingiuriosa rivolta a chi infastidisce ed annoia, ma in particolare a chi si fa carico d'un servizio salvo poi temporeggiare, piuttosto che portarlo a termine come promesso.
Grazie al raffinatissimo gioco di parole tra ehe (vacca) e nehe (saltare), è traducibile pressappoco in questo modo: che una vacca ti cresca in ventre subitanea, che tu ne veda le corna sventrarti e lacerarti le carni ed infine galoppare con un salto poderoso sì che il pelo insanguinato sarebbe l'ultima cosa che vedresti.
Strusciò quella lattina senza neppure rendersene conto.
D'improvviso, quale grande meraviglia, apparve dinnanzi i suoi occhi un genio potente e misterioso.
In realtà, si vide subito, il genio pareva più uscito da una pubblicità progresso, tanto erano lisi gli abiti che lo ricoprivano. Per scarpe portava le ciabattine d'ordinanza, quelle a punta, eleganti e consunte ma solo ad un piede, perché all'altro aveva una logora ciabatta da mare di plastica tenuta assieme con gli spilloni.
Il turbante era costituito da un vecchia tenda tarmata, che gli conferiva un'aspetto mesto e decrepito. Per il resto era un omaccione grasso e flaccido, calvo ma ringalluzzito da dei mustacchietti impertinenti.
Tossì un paio di volte emettendo arabeschi di polvere e si prodigò nell'inchino più elegante che si fosse mai visto. Dopo diverse manciate di secondi in cui da tale inchino non riemergeva, l'ignara spettatrice prese coraggio e disse nervosamente "Ti rigrazio molto per la gentilezza, ma ora puoi rialzarti. Sono una ragazza normale, non ci tengo a certe formalità"
"No, è che mi sono incastrato" chiocciò afflitto "potresti darmi una mano a tirarmi su?"
Dubbiosa e vagamente turbata, lo aiutò ad alzarsi.
"Ahi, ahiahi" faceva uno; "aspetti. No, segua me. Su, piano piano, un colpo secco, così." ribatteva paziente l'altra.
"Ah, ora va meglio, povera la mia schiena. Povera la mia schiena.Tutta questa umidità, e poi vivere sempre piegati dentro una lattina, un cartone o una bottiglia. E' la mia vera grande tragedia. Più grande della mia aerofagia. Lei non trova che l'aerofagia sia la vera piaga del mondo?"
Rimase interdetta, con una divertente espressione di incertezza sul viso. "Ma credevo che i geni vivessero nelle lampade tempestate di gemme!"
"Ah, figlia mia. Ah figlia mia" e si mise a piangere di colpo, soffiandosi il naso fragorosamente sulla manica aerosa ma anche un po' lercia. La ragazza, che aveva allungato la mano porgendo il suo fazzoletto, di colpo la ritrasse, mentre quello era ancora accecato dalle lacrime copiose.
"Scusi, ma lei è un genio?"
L'altro ebbe un impeto di maestà "Ma si capisce, che lo sono!" esclamò rizzandosi. Mormorò qualcosa e si passo la mano sulla schiena dolorante.
"E' che non tutti i geni sono uguali, graziosa signora, ed io," imbronciò impercettibilmente la bocca gigantesca "bè, io sono un po' diverso dagli altri " e s'aprì in un sorrisone in cui filari di denti enormi da ippopotamo gialleggiavano ordinati.
La poverina portò d'impulso la mano sulla bocca per l'improvvisa zaffata.
"Ah, si, lo so, ma non devi dispiacerti per me. Vedi, io sono un genio del cassonetto. E in qualcosa che sta nel medesimo, vivo. In questo caso, una lattina. Ma poteva essere una boccetta di shampoo, o la tasca d'una vecchia palandrana. Se un fortunato mortale sfiora ciò in cui, per quel brevissimo periodo, ho deciso di dimorare, allora di colpo compaio e tre desideri io, per costui, esaudirò."
"Come da minimo sindacale" aggiunse a dita giunte, con fare professionale.
"Che meraviglia!" esclamò entusiasta "Voglio proprio provarmici!"
"Io vorrei essere ricca sfondata. Due, avere un uomo fighissimo e intelligentissimo che mi adora la cui più grande aspirazione è rientrare a casa la sera per farmi il massaggio ai piedi. E tre - massì che ci sta tutto - la pace nel mond..."
"Mannò, mannò, mannò!" piagnucolò il genio del cassonetto. "Ma mica sono onnipotente! Se lo fossi, mia bella signora, non vivrei mica qua " scoccò un'occhiataccia alla piramide di immondizia "dentro questo squallido ciarpame" concluse.
"Ok, allora cosa posso desiderare?"
"Ma cose più modeste, più pratiche, è evidente. Per la pace nel mondo poi, oh oh!!" ridacchiò a tanta ingenuità, "per quella ci vuole un miracolo. Prega il tuo dio, mia bella signora, io sono solo un genio."
"E di quelli del discount, oltretutto" fece lei stizzosa, ma il genio non parve capire.
"Ok, allora voglio una casa al mare che la Reggia di Caserta in confronto sembra il cesso della stazione Termin..."
"Mannò, mannò!" squittì il genio portando le dita sui labbroni da pornodiva." Hai idea di quanto ci vuole per le autorizzazioni, le mazzette ai verdi, le mancette agli assessori? Così non va. Ci vuole qualcosa di meno ostentato." e poi, con voce flautata e suadente "sii meno avida, mia signora."
La ragazza sbuffò rumorosamente e fece "Allora vorrei essere la donna più bella del mondo, la ragione dei sospiri di tutti gli uomini - e pure qualche donna -, colei per la quale brilla il sole, come Nefertiti, insomma una topa che Elena di Troia in confronto è un viados sulla tangenzia..."
"Mannò, mannò" fu ancora la nervosa e balbettante risposta del genio "Ma mia signora, sei già ammaliatrice come la gemma di luna" allungò quella luuuuna e la accentuò con movimenti a voluta delle grosse mani. "Cosa ne diresti di un paio d'ore in un centro fitness e fanghi? Ho letto che fanno miracoli, sulla celluli..." ma stavolta fu il genio ad essere interrotto.
"Pezzente e pure sgarbato!" urlò indignata l'altra. "E comunque è solo rotondità, mica cellulite." aggiunse scura scura in viso, la voce strozzata.
"Vabè, allora vediamo di non perdere tempo. Dimmi cosa posso desiderare."
"E' ciò che desideri, mia signora?"
"Bè, si", balbettò l'altra poco convinta.
"Allora sia esaudito il tuo primo desiderio!" Da uno sbuffo fitto di fumo azzurro guizzò nei palmi del genio un grosso gobbo a manovella, che tra stridori di macinino, rollava un pannello su cui erano scritte parole in lenta successione: acquario, televisore, stereo, lavastoviglie e così via.
"Ma come?!" berciò inviperita la ragazza "questo non era il mio primo desiderio. Mi hai fregato!"
"Mia padrona, non è forse vero che mi hai chiesto ciò che potresti desiderare?" disse il genio, piuttosto sorpreso.
"Bè, si, ma non vedo come..."
"E non è forse vero che t'ho chiesto se era un tuo desiderio e tu hai annuito?"
Ponderò qualche secondo imbronciata, ma dovette convenire che il ribaldo aveva ragione.
"Ok, ora fa' sparire tutta questa paccottiglia. Non era certamente ciò che intendevo" fece con afflitta noncuranza.
"Come la mia signora desidera, acconsento al suo desiderio."
La poverina non potè protestare neppure questa volta perchè le sue rimostranze furono soverchiate dal frastuono del trabiccolo che tra stridii strazianti e lamentosi si accartocciava, riducendosi ad una palla di carta e metallo che infine implose con uno sbuffo azzurrognolo. E finalmente fu silenzio.
Il genio con un sorriso galeotto ortopanoramico attendeva a braccia conserte, mentre la ragazza era semplicemente furente, le guance sanguigne e gli occhi iniettati di sangue.
"Scommetto che mi sono giocata un altro desiderio" insinuò all'acido prussico.
"Così è, mia padrona".
La ragazza portò pimice e pomice sulle labbra, e studiò l'altro in modo preoccupante.
Poi, con voce flautata e temibile mormorò "Sai cosa desidero? E apri bene le orecchie, perché è il mio ultimo desiderio."
Il genio rise nervoso alla sinistra minaccia che serpeggiava nelle sue parole "tutto quello che la mia - hem - gentile signora desidera."
"Io voglio, pretendo e comando che tu diventi un barbone vero, senza poteri e senza questa buffonata del genio. Tanto non noteresti neppure la differenza, sudicio panteganone. Neppure la mensa parrocchiale vorrà darti da mangiare."
Avrebbe voluto berciare queste parole, invece disse "Voglio che diventi un genio di quelli da fiaba, bello, intelligente, misterioso, col sorriso malandrino, potente e veggente e col turbante imbrilloccato. E la tua magione sarà una lampada d'oro con un rubino per beccuccio."
"Come la mia buona padrona desidera!" Ruggì il genio impetuoso, avviluppato da fumi densi dalle sfumature cobalto. La terra tremò per qualche secondo e tutto, genio e fumi, finirono risucchiati nella lattina di pogacola che si gonfiava come un rospo e borbogliava come stesse fondendo. Trasformatasi che fu in una splendida lampada, la ragazza la raccolse che era ancora calda, e se la portò a casa.
Si sposarano dopo poco ed ebbero bambini genietti tranne uno che era un po' zappa in matematica, ma nel complesso vissero sufficientemente felici e contenti.
Fine.
La donna grassa, dagli occhi come il burro
Così parlò aWilito alle 09:42 Tags brevi ma intensi, delirioLa donna grassa, dagli occhi come il burro, attendeva da settimane la conferma della morte del marito. Si trattava di una lettera, o d'una telefonata da quelli del governo. Tanto, pensava, difficilmente si sbagliano e seppure fosse, ciò non spiegava perché il marito non fosse ancora tornato.
Ci rimuginava continuamente, e l'idea dell'incapacità di conoscere la verità la schiacciava più della verità stessa, a prescindere da quale fosse, poi, questa verità.
Aveva in mente di suicidarsi, e da parecchio. Aspettava solo la scintilla dell'innesco, il sassolino che da origine alla valanga; da una parte lei, dall'altra la coscienza, ed infine il marito - il comburente al proprio personalissimo rogo. Non poteva sopportare di giacere immobile nel letto nell'attesa d'un'annuncio che qualcuno aveva dimenticato di fare, così una sera si guardò intorno, vide lo sfacelo in cui versava casa, l'abbandono e lo sporco che erano tutt'intorno a lei, e prese piuttosto una decisione.
Si sollevò pesantemente, riesumò i vestiti buoni tormentati da naftalina e agonia di tarme e li buttò in valigia; ruppe il vaso che conteneva tutti i risparmi d'una vita e chiamò un taxi, con voce un po' tremante ma tanto inaspettatamente viva, possibilista.
Lasciò lo squallore e partì per Caracas, quella notte stessa, senza alcuna premeditazione nè piani. Pensava solo a ciò che era necessario fare di volta in volta, o poco più di questo.
Il mattino successivo qualcuno suonò il campanello della casa, ma nessuno era lì ad aprire la porta.
Questo è un blog apotropaico.
Un saltimbanco sta nella piazza. Rincorre i bambini, ne spaventa le mamme, fa' battute sguaiate ed irriverenti su italiani e francesi, sui politici, sulla televisione. E' incontenibile ed anche irresistibile, e tutti ridono. Sulla guancia ha disegnata una W piena di svolazzi.
Arriva un poliziotto, bercia qualcosa, gli viene risposto di no col capo, quindi ammanetta l'uomo. Alle rimostranze di quest'ultimo, il poliziotto dice lei è un fuorilegge: non ha la licenza. Lei ha fatto ridere questa gente illegalmente. Mi segua.
La folla non protesta, anzi, piuttosto imbarazzata, si disperde rapidamente.
ps: per quanti stessero cercando il frammento della copertina del libro di Licia, il racconto da prendere in considerazione è quello del 22 Settembre. Buona caccia (si, lo so, sono stato un bastardo :P )
Il paradosso che porta a Moni Preveli (Ovvero del frammento di copertina)
Così parlò aWilito alle 15:19"Sei assolutamente certo di voler salire su?"
Annuì caparbio.
"Sta bene" e slegò le mani da quelle di Mena, "fa molta attenzione, però. Il vegliardo di Moni Preveli è furbo, e tenterà di distoglierti dal tuo intento."
"Troverò quel frammento di futuro e lo farò mio, lo giuro. Perchè da me dipende la completezza dei piani divini."
"Cosa intendi, con questo? Perché non vuoi spiegarmi?" Lo scrutò intensamente.
"Non posso..." disse mordendosi il labbro, sul punto di cedere. Volse di scatto lo sguardo in entrambe le direzioni, come per accertarsi di non essere spiato, poi sussurrò "Stanotte in sogno ho avuto una visione. Un ragazzo forse coi miei anni, vestito di stoffe sgargianti e calzari tra i più bizzarri, mi è apparso e mi ha detto svegliati Mena, perchè ho una missione da affidarti. Viaggerai al Monastero di Preveli e risolverai l'enigma che ho creato per te. Anche se non puoi comprenderlo, ciò è necessario perché alcuni trovino un frammento che gli è stato promesso."
"Dici che non capirei, perché non mi metti alla prova, gli ho detto."
"E cosa ha risposto, quel giovane dio?"
"Si è messo a ridere divertito! Forse l'avevo irato, ma suonava piuttosto un riso benevolo. Così mi disse ancora, diciamo così. Devi indicare la via che porta ad un piccolo tesoro. Esso è qualcosa cui condurrai tu ma che, nonostante ciò, non è con te né tu lo puoi raggiungere. Sappi che in molti conosceranno le tue gesta, quindi scegli bene." L'altra parve sconcertato.
Mena continuò "Ed è importante, chiesi e lui si, è molto importante. Sei un dio, venuto a decretare la mia morte? gli ho domandato. E lui ha riso ancora. E prima di dissolversi m'ha detto, no, non sono un dio. Ma è per mezzo di me che esisti. Ora va', aveva detto, ed il mio cuore non aveva battuto neppure una volta di più che era svanito nel nulla. Ecco perché sono venuto fin qui. Sei stata buona ad accompagnarmi, ma non credo di poter salire quei gradini con te."
Stette in silenzio, forse vagamente offesa, e certamente preoccupata, raccolse un lembo del mantello e se lo gettò dietro le spalle. Poi semplicemente si congedò.
Mena superò un ulivo ingobbito, dall'aria centenaria e risalì la ripida e stretta scalinata di pietra, quella che stava sulla schiena d'una nicchia nel muro del cortile. Sulla destra la cappella che, consumata dal tempo, più invecchiava e più incuteva timore. A sinistra, in lontananza, il mare dell'intensità del viola. Superò la chiesetta, raggiunse un palazzo antico e si infilò sotto l'arco che conduceva ad una porta aperta. Sopra, intagliata elegantemente, una scritta in lingua eva diceva solo la verità porta al frammento. Seguì il lungo corridoio deserto a scarsamente illuminato da pigre fiammelle. Raccolse tutto il suo coraggio, prono al destino che la sorte gli lasciava in eredità, ed entrò in una angusta stanzetta dove un vecchio prete ortodosso sedeva immoto dietro la scrivania. Vestito d'una riassa piuttosto lisa, si sarebbe detto morto, se non fosse stato per il vizietto d'arricciare la punta della folta barba.
Parlò prontamente, quasi stesse aspettando quel momento da sempre. Forse, pensò Mena, aveva ricevuto la stessa visita in sogno.
"Mentirò tre volte." disse secco.
Il vecchio si guardò intorno, quasi vedesse una schiera di persone, ed annuì lentamente " Ciò che bramate tutti, si può trovarlo nella Teofania, e solo lì."
Incrociò le dita e, e con costruita solennità, disse piuttosto "E' tra queste stesse mie parole che giace ciò che manca."
Infine, scavandogli nelle pupille col solo sguardo "Il frammento è proprio qui, appena sopra di noi." E fu silenzio.
Mena, improvvisamente avvampato, protestò "sono convinto che solo due delle tue affermazioni siano false. Però così le bugie non sarebbero affatto tre."
Impassibile e severo il prete ortodosso rispose " t'assicuro che le menzogne sono tre", e, bisbigliando sommessamente, si immerse nella lettura d'un piccolo e consumato vangelo, ornato da un logoro taglio dorato. Intese con questo che la questione era chiusa.
Mena socchiuse gli occhi, e pensò un poco. Poi, rivivendo il sogno avuto nella propria mente, comprese ciò che doveva fare e, semplicemente, tornò sui suoi passi. La verità ce l'aveva proprio davanti.
L'uomo di cera, nonostante gli avversi e disgustosi pregiudizi che lo lapidavano, era capace d'amare, e lo faceva con una onestà ed una intensità disarmanti. Ma fu sciocco, o tremendamente sfortunato: l'incauto si innamorò della regina delle puttane, quella che, da un palazzo d'ardesia, sui cuori degli uomini ci camminava coi tacchi a spillo, riducendoli poco più che fazzoletti bucati.
Ben conscio d'andare incontro ad una delusione cocente, si incamminò per i gradini neri e consunti che conducevano agli appartamenti, per proporsi. Le altre puttane, nascoste dietro drappi e paraventi e porte osservavano la scena in silenzio, talvolta sopprimendo le risa, talvolta lanciando sguardi alle compagne, in qualche caso persino con apprensione. Se la loro regina si fosse innamorata, tutte sarebbero state sciolte dalla schiavitù, per sempre affrancate. L'uomo di cera entrò in una sala illuminata da fiammelle danzanti e lì, seduta su di una sontuosa bergère, stava lei, il desiderio ardente, il suo zahir.
Lei lo incendiò con una sola occhiata.
Una insostenibile sensazione di pace pervase l'uomo di cera mentre moriva sciogliendosi.
SuperFrollo ovvero racconto penoso e fortemente autobiografico, per chi lo sa
Così parlò aWilito alle 13:08 Tags delirio, personali, raccontiIl mio personalissimo eroe di fiducia si chiama SuperFrollo, detto così perché un po' pingue e dotato di carni - e coscienza - molli.
Sponsor ufficiale delle sue eroiche gesta, Pasta Frolla Semilavorata Surgelata di Nonna Raspa (95% strutto), chiamata così (la nonna, non la frolla) per le doti di pungente e grattante ironia, o forse perchè un po' sgualdrina; non si seppe mai.
Il suddetto eroe era stato invocato per compiere una impresa sottile, delicata, addirittura ombrosa. Avrebbe dovuto nascondere la mia identità al mondo intero, celare i lineamenti, dissimulare i pensieri, depistare gli inseguitori, offuscare ogni indizio, insabbiare qualunque traccia, secretare ogni collegamento.
Ricordo ancora il giorno in cui lo ingaggiai, gli dissi "SuperFrollo, ho bisogno di te".
Poi un po' meno solennemente aggiunsi "in verità preferirei chiunque altro, ma tu sei tutta la mia dotazione standard di intelligence, e mi devo accontentare."
Arricciò stizzito il naso, ma non replicò.
"Vedi, sono inseguito."
"E da chi?"
"Questo non è importante. Tanto gli inseguitori non sanno ancora di essere sulle mie tracce."
"Non capisco" fece col dito appeso al labbro.
Sbruffai "non mi meraviglia affatto, mio pavido amico. Ovviamente costoro non sanno nulla di me e dei miei affari, per così dire, sotterranei. Ma alla prima mossa falsa, diventeranno miei delatori e non si daranno pace finché non mi avranno smascherato e colle spalle al muro."
"Ma come fanno a tallonarti se non sanno neppure di cercarti -" ebbe l'ardire di controbattere.
"SuperFrollo", dissi con tono esasperato ed autoritario "Ti ricordo che sei pagato per eseguire i miei ordini, non per fare domande. Quindi ora sparisci e cerca di coprirmi, ma che dico coprirmi, di rendermi invisibile."
"E non farti sgamare." sospirai affatto convinto.
Dopo neppure un giorno un uccellino mi fece "Sta' molto attento. Ti stai esponendo." e si fiondò a frugarmi nel frigo, come da sua abitudine.
Un mese dopo, invece, mi arrivò la prima lettera minatoria: "So chi sei. Manterrò il segreto, per ora. Ma ti ho in pugno." Risposi come si conviene in queste occasioni "Mi hai scoperto. Ora devi morire".
Ieri notte, infine, ho dovuto capitolare. Ho capito due cose.
Non puoi essere invisibile quando sei inconsciamente in cerca di notorietà.
E soprattutto, non puoi vincere quando sei a comando d'un servizio segreto penoso come il mio.
Ad ogni buon conto non ho licenziato SuperFrollo: è pur sempre una parte di me e ci sono affezionato.
Quanto ai piani che tentavo di mantenere segreti, sono questi stessi che state leggendo. E la vergogna che provo ad essere letto da chi mi conosce bene è sintomo soltanto della smisurata, bramatissima, impudicizia dei miei racconti. E comunque, peggio di così non potrebbe andare.
Sai cos'è veramente demoniaco, dello zahir?
Non tanto la buia prigione in cui getta il cuore degli uomini, quanto piuttosto il fatto che c'è chi oggi è riuscito a produrlo industrialmente, plastificarlo, confezionarlo e renderlo ubiquo.
E mascherato da autoindulgenza, fa anche meno paura.
Questo è veramente temibile.
Sua madre, con gli occhi bagnati di speranza, gli disse, tuo padre ha lavorato moltissimo, per comprarti questo pianoforte. Ora fanne buon uso, e sparì nel buio della cucina.
Intanto suo padre, il viso rugoso e coperto d'una peluria ispida, brizzolata, gli confessò il più grande dei segreti. Disse, questo pianoforte è capace di di esaudire un desiderio, proprio così, un desiderio. Solo che è molto difficile, aggiunse aggrottato, quasi non fosse una cosa da dire ad un ragazzino.
Wilhelm, ovviamente, pretendette di esserne messo a parte.
Gli si avvicinò ancora di più e sussurrò, è sufficiente trovare la combinazione giusta di note, da eseguire nell'esatto tempo d'esecuzione. Una volta suonata la sequenza corretta, il tuo desiderio s'avvera. E cos'è che vuoi più di tutto, Wilhelm?
Che meraviglia quei giochi di bambini in cui un'intera avventura comincia sempre con facciamo che io ero.
Wilhelm rispose che non desiderava altro che diventare il più grande esecutore di tutti di tempi.
Così, iniziò a strimpellarlo per tutto il giorno, nel tentativo di scovare la combinazione di tasti ch'avrebbe fatto la sua fortuna. Ma era più complicato di quanto avesse inizialmente paventato.
Iniziò a prendere lezioni (suo padre dovette impegnare le fedi nuziali, per pagare l'insegnante) perché aveva deciso che variazioni casuali di note gli erano troppo indifferenti. Studiò con irosa ostinazione prima, curiosità dopo, passione infine.
Riuscì ad essere ammesso al conservatorio, sotto l'egida di Alois Rockenford ed adorò a tal punto la musica che studiò contemporaneamente anche a Francoforte, per inseguire la sequenza, ripeteva.
A soli sedici anni la grande occasione, fu chiamato a sostituire Alexander Siloti e partì nuovamente, questa volta per un tour che portò il suo nome, e la propria bravura, per tutta l'Inghilterra.
Molti altri viaggi seguirono ed ancora più consensi. Nel caparbio tentativo di cercare una formula magica, aveva piuttosto trovato la propria strada.
Wilhelm Backhaus morì nel 1969.
Talvolta, di notte, a casa mia può accadere di esere svegliati di soprassalto da un urlo terribile, letteralmente spaventoso. Raggelante, per la precisione, che fa aiutooo.
Ciò sarebbe già sufficientemente seccante di per sé, senza aggiungere che ultimamente avviene anche di giorno -indifferentemente all'alba come nel primo pomeriggio-. A produrre tanto scompiglio ci sta un signore anziano, vedovo, la cui moglie è morta circa un anno fa e la cosa curiosa è che la donna era vitale, ancora curata e piena di fascino, fino a poco prima di lasciarlo. Il marito, piuttosto - e da parecchio-, pareva già roba del Creatore, ancora sulla terra per qualche evidente svista o dimenticanza. Ma come spesso accade, i fili del mondo si sono intrecciati nella solita insolita, ironica, crudele maniera. E così ora, senza qualcuno che lo rimbrotti, o che metta ordine nei suoi cassetti così come nella sua mente, le condizioni dell'uomo sono decadute all'improvviso, scoprendo le carte della vecchiaia, lasciandolo solo di fronte all'età, all'umana fragilità, al caos dell'anima.
Ritenevo si comportasse così nel tentativo di invocare la pietà degli altri, ma sbagliavo.
Avevo anche creduto, romanticamente, che urlava affinché il proprio lamento raggiungesse la Morte stessa, e lo inducesse a portarselo via.
La verità, invece, l'ho conosciuta in un modo che non mi è possibile riferire qui o altrove, ed ha, come molte altre verità, il sapore del mito e della finzione.
L'uomo vuole che lo si creda malato e agonizzante. Vuole apparire fragile e in fin di vita. Ma è tutta una messinscena. Ciò che lui sa, e quasi tutti ignorano, è che la Morte non fa visita al momento in cui si lascia il mondo. Tuttaltro. Viene molto prima, quando siamo ancora in salute e le carni sono intrise di forze, e volontà. Egli, dunque, finge d'essere già stato visitato dalla Morte nella speranza che quella si dimentichi di farlo sul serio. Ed è una pena vederlo tanto spoglio della dignità.
Non biasimarlo per la sua impostura: è già morto e non lo sa.
Poesia postmoderna dell'era informatizzata (tutto accaduto sul serio, lo giuro)
Così parlò aWilito alle 12:53 Tags delirio, personali, scienze curioseNel buio all'improvviso, l'altra sera:
- Cos'è?Lo senti questo suono ciclico e persistente? Deve essere un cellulare che trilla.
- Sono solo i grilli, torna a dormire.
Su di un treno, ammirando attraverso il finestrino il pigro scorrere del paesaggio:
- Che pacato splendore. Le collina è d'un verde irreale ed il cielo d'una vividezza accecante.
- Già, sembra lo sfondo di windows xp.
Parlando del mio bellissimo pianoforte a quarto di coda, nero e lucente, ma - più camuffato d'un vietcong - totalmente, ed inaspettatamente, digitale:
- Ieri suonavo il valzer del minuto di Chopin, il mio preferito. Il funambolico movimento delle mani, il ritmo cullante e quella deliziosa cascata di note argentine, così leggere, accattivanti. Proprio sul tondo re bemolle di conclusione il pianoforte si è inceppato.
- E come hai risolto?
- Ho dovuto formattare il pianoforte.
Cos'è che sarebbe?
Un antifurto di nuova concezione.
E come funziona?
Trasferisce tutti i miei ori e gioielli in un'altra dimensione.
E come li riprendi?
E' quello il bello, non si può. Altrimenti chiunque, anche un ladro, potebbe sottrarmeli, ti pare?
Mi pare.
Conosci Nàdoa?
E' uno di quei posti che solo io mi so. Ma non posso indicarti la via che mi ci ha portato.
Perchè non puoi cercarla.
Puoi solo perderti e trovarla.
Circa la reciprocità relativa d'alcune coppie
Così parlò aWilito alle 10:19 Tags brevi ma intensi, scienze curioseNe ignoro le ragioni, forse dipende dai caratteri, forse dalle cirostanze, eppure ho l'impressione che alcune coppie si passino i pioli della scala a vicenda. Cioè, è come se una prendesse l'altro per la camicia e lo sollevasse di dieci centimetri, e l'altro prendesse l'una per la collana e la tirasse su di altri dieci centimetri, e di passetto in passetto si arroccassero sulle loro posizioni, convincendosi vicendevolmente su qualunque questione, veduta, sensazione ed opinione. E così, trincerati e diffidenti nel loro oppido superuranico, accade che seppure uno di loro avesse torto, l'altro avrebbe certamente ragione.
Nel mezzo dell'Oceano stava un isolotto perfettamente tondo e sodo, dalla cui sommità fiottava con gran fragore un fumo nero, ingobbito da raffiche eoliche magne.
Avvicinandosi meglio, in realtà, s'evince che quella non era affatto un'isola, quanto piuttosto il culo d'una balenaccia vorace e assassina la quale, invece di ingollare la solita zuppiglia di plancton, era stata ad un certo punto assalita da una tale voglia di cucina cinese che aveva fatto d'una nave da trasporto, per l'appunto cinese, un sol boccone, al massimo due.
Sfortuna aveva voluto, però, che il cargo, proveniente dalla Calabria Saudita, stesse trasportando tonnellate di Capsicum Frutescens della migliore qualità, cioè peperoncino rosso dinamitardo detto comunemente rosso artificiale. Artificiale come i fuochi, non perché finto. Ed il povero, ingombrante cetaceo pianse per giorni e giorni, povera bestia, e bevve e bevve, per placare l'ardore, tanto che alla fine fu pure un poco ubriaco.
Ciò che la bestia non poteva sapere, però, è che sulla nave da carico lavorava un mozzo, detto Mozzancollo perché in mezzo a tutto l'equipaggio era di certo il più pregiato. Aveva carni bianche e tenere, si ipotizzava vergini, e dopo sei mesi di navigazione questo poteva fare la differenza per una ciurma di uomini ruvidi e solitari.
In realtà, però, ciò che essi ignoravano era la natura di Mozzancollo, al tempo Brigida O'Flanagan, oriunda di Cork, che era natura di donna - affatto priva di bellezza, peraltro - e che di quel porcilaio avrebbe volentieri fatto a meno. Il fatto è che la fanciulla era la destinataria del patrimonio d'un certo zio mericano che aveva visto solo una volta, da bambina. Il di lei zio s'era tanto invaghito dei suoi modi gentili e della sua delicatezza, che la preferì - complice forse il rincoglionimento senile - ai figli sanguisughe. Purtroppo per lei, per effettuare il riconoscimento e mettere le mani sul gruzzolo doveva prima raggiungere la Merica. Soprattutto prima che i suoi cugini, eredi legittimi e di recente poveri in canna, impugnassero il testamento. Ma è difficile andare a riscuotere dei soldi senza avere i soldi per andare a riscuoterli. Così la poveretta si era improvvisata uomo e marinaro e s'era imbarcata, non avendo null'altro da perdere, a parte vita, verginità e dignità.
Però, a pensarci bene, era stata fortunata a morire in pasto ad una balena. I cugini dall'altra parte dell'Oceano, infatti, avevano predisposto un sicario e l'avevano istruito affinché l'aspettasse per un tempo indefinito al porto di Boston. L'assassino, Luigi Tolliver, nato americano da genitori di Policoro, attese per oltre trent'anni l'arrivo di questa fantomatica cugina usurpatrice senza mai porre, e porsi, domande. Dopo questo considerevole lasso di tempo, stabilì che dopotutto nessuna Brigida si sarebbe mai fatta viva, così decise di viaggiare, con la coscienza pulita e un discreto gruzzolo, fino alla terra natìa in Basilicata per conoscere i luoghi degl'ardori materni. L'uomo aveva sentito molte voci, alcune ignominiose, altre assai romantiche, circa la tormentata storia d'amore dei suoi genitori, ma mai aveva potuto discernerne la verità. Ecco perché tornava alle radici della propria famiglia.
Il problema è che non vi arrivò mai a causa d'un contrattempo. La nave su cui Luigi Tolliver viaggiava seguiva la stessa rotta - ma in senso opposto - della balena naofaga la quale, dopo trent'anni di digiuni forzati e peti al carbonchio, aveva maturato un discreto appetito e una dimenticanza del passato sufficiente a farle ripetere con noncuranza il gesto mangereccio.
Stavolta a causargli l'indigestione furono il coppale ed il catrame, usati in grandi quantità per rendere impermeabile il legno e per calafatare gli scafi.
Di nuovo, pianse e pianse e di nuovo giurò che non avrebbe più pasteggiato a barcame.
Che stavolta le si creda o no, il vero scempio, forse l'unico a ben vedere, è che la balena non comprese mai neppure lontanamente quanta parte, e quale gigantesco ruolo giocò in tutta questa tragica storia.
Stamattina mi sono svegliato in casa d'una amica che abita in centro, a Roma.
La mia macchina è speciale per molti motivi.
Non si rompe mai perché è rivestita di un particolare caucciù sudafricano ottenuto dall'albero del caucciù, per l'appunto, mescolato ad altri ingredienti segreti noti solo agli sciamani professionisti. Così, quando urta altre automobili, invece di frangere vetri e ossa, rimbalza e blobbeggia come un budino. Anzi, lo sciamano m'ha assicurato che ha anche il sapore, del budino. Alla vaniglia, per la precisione, ma non l'ho mai provato personalmente. Invece qualcuno deve averlo fatto, visto che una tiepida mattina primaverile mi sono ritrovato un morso sul paraurti posteriore. Riuscivo persino a contare i denti. Maschio, caucasico, circa trentacinque anni, m'ha assicurato il coroner. Non s'è mai saputo di chi fossero, però.
La mia macchina, oltretutto, è molto pratica. Quando ho necessità di trovare parcheggio, la sfrego un poco in un punto ch'io mi so, e quella si fa un cicìno più piccola, così che posso infilarla in feritoie ridicolmente strette. Se mi sento ispirato, e lei è dell'umore giusto, titillando ancora un po', si accorcia anche in lunghezza, come una fisarmonica.
Ovviamente dentro è spaziosissima. C'è posto abbondante per l'autista (ovviamente) e per il marito o la moglie o entrambi. E poi ci stanno gli amici, le valigie per le vacanze, e volendo anche le vacanze stesse. Stavo difatti pensando di installarci una piscina con idromassaggio, ma non vorrei poi consumasse di più.
Perché quanto a consumi, la mia macchina è molto ecologica. Ha un serbatoio grosso come un accendino che le dura almeno una settimana. A volte, quando non trovo un benzinaio, chiedo a qualche amico fumatore se mi fa il pieno. Poi, ovviamente, gli rendo il favore.
Oggi però è successa una novità: s'è bucata una ruota.
Ovviamente, essendo una macchina del tutto particolare, gli orgogliosi ingegneri e progettisti l'avevano deliberatamente lasciata sprovvista di crick, ritenendo l'attrezzo medesimo un inutile spreco di spazio. Al suo posto, piuttosto, hanno installato un acquario marino con due pesci pagliaccio di serie, che fa molto più chic e non ce l'ha nessuno. Confesso che sono morti da un pezzo e non li ho mai sostituiti (spero non se ne accorgano). Ma quello è il meno visto che, data la natura insolita della vettura, i costruttori hanno pensato anche di non fornirla d'una ruota di scorta, ruotino, o toppe di gomma tipo bicicletta. Troppo banali. Con tutta la capienza avanzata, hanno potuto installare, e tuttosommato come biasimarli, una cassettiera a scomparsa, con tanto di separatori interni. Così, mentre cercavo di spiegare il problema al gommista, controllavo che avessi ancora calzini grigi puliti a disposizione. Ma è il privilegio di possedere un'auto così, ed è normale andare incontro a queste piccoli inconvenienti. Noblesse oblige, come dire, ce l'hai e te la tieni. Così, mentre il gommista con perizia certosina ed in solenne silenzio studiava l'entità dei danni (e probabilmente si chiedeva se in questa stagione Bali fosse preferibile a Cayo Largo), la sua segretaria, penitente e renitente, si scusava e spariva dietro una tendina. Aveva terminato il taccuino ed era andata a procurarsi una risma di carta per poter terminare i calcoli paralleli, umbrali e relazionali necessari a partorire il conto. Avrei voluto chiedere uno sconticino, ma mi fece cenno di non disturbare mentre era intenta a immettere i dati nel piccolo super computer da asporto di cui sono dotate molte officine, oggigiorno. E mentre venivano ultimati i piccoli ritocchi necessari, ed il restauratore convenzionato dava una controllatina alla salute dei mosaici interni, io gettavo - devo confessarlo - un'occhiata preoccupata alla segretaria la quale, sempre nel tentativo di arrivare alla parcella, stava ora china davanti una sfera di cristallo, evidentemente concentrata in quella che aveva l'aria d'una complicatissima divinazione.
Finalmente ogni fatica trovò compimento e, saldato il conto (dovrò tornare lunedì, giusto per dare il tempo ai globuli rossi di riformarsi), proposi di festeggiare il buon esito dei lavori con un Bardolino del '79. Offerto da me, si capisce.
Dopotutto, tengo sempre una scorta di buoni vinelli, nella botola sotto il bagagliaio, quella che dà sulla cantinetta.
Mi è costata un po' ma devo dire, devo proprio dire, che ne è valsa veramente la pena.
Ai ferri corti col presentatore tv
Così parlò aWilito alle 09:54 Tags delirio, personali, stucchevoleCos'è che desideri più al mondo? m'ha chiesto quel farabutto del presentatore tv.
Essere felice, gli ho risposto.
E cosa, al mondo, ti rende felice? ribatte.
Poche cose. L'amore, gli amici, una casa e un lavoro di soddisfazione.
Sono cose comuni che chiedono tutti. Pecchi di banalità, mi fa sorpreso.
E allora, se è così comune, perché è quello che chiedono tutti? Nessuno desidera ciò che ha già.
E tu, che cos'è che hai già? incalza.
Un amore grande, risposi pronto. Ma questo è irrilevante perché ieri notte non sei stato licenziato solo a causa, e per mezzo, di questo grande amore. Guardati le spalle, stronzo.
Mi guarda torvo, ed è come guardarsi in uno specchio.
Si può veramente licenziare se stessi?
Rufus la talpa soleva scavare gallerie eleganti ed intricate, invidiate da architetti umani e Formicidi.
Solo che, di tanto in tanto, aveva la smania di fare un tuffo in superficie, annusare l'aria, prendere qualche complimento, un saluto, e sparire nel suo labirinto e monumento personale.
Rufus era una talpa un po' vanitosa, ma neppure troppo.
Ieri ricevette le lodi nientemento che dalla Regina delle formiche, gran seccatrice e smodata pettegola. Il giorno prima, invece, alcuni cugini talpidi si erano prodigati in un tripudio di ammirazioni e rallegramenti, per il lavoro svolto.
Una volta, si narra, persino la civetta Blaterone gli augurò fortuna per il futuro, cordialmente e senza mangiarselo vivo.
Ma ciò che Rufus non aveva calcolato era che tutte queste uscite, per quanto brevi e fugaci, avevano costellato d'una infinità di buchi i campi della fattoria.
Così, un brutto giorno, il fattore - che era un uomo ruvido e di ben poche parole -vide Rufus sbucare da dietro una zolla, disse trionfante "Ah!" e gli diede una palata sulla testa.
Il bello è che, a mio modo di vedere, Rufus fece comunque bene.
Al tempo in cui Diogene faceva scolpire il consiglio del suo maestro sulle pietre alle porte di Enoanda, nessuno, o pochi più, era a conoscenza del significato del motto vivi nell'oscurità. Con ciò si voleva intendere di rifuggire la celebrità, la gloria e l'abbraccio della folla, perché foriere di infelicità. Non era uno sprone all'inedia, ma piuttosto una esortazione ad agire per sé stessi, più che per gli altri.
Un tale Aezio, il quale dimorava non lontano dal luogo che diede i natali alla lussuriosa Afrodite e che si trovava in Licia per commerciare vino, rimase tanto colpito da tali parole che salpò per l'isola di Rodi dove, travisando completamente il senso della sentenza, fondò un piccolo, graziosissimo villaggio di pescatori che chiamò Afandù, ovvero che non si vede. Ciò dipende dal fatto che mura di alte montagne lo nascondevano alla vista di qualunque avventore che non lo guardasse dalla sua stessa baia, o sapesse come arrivarci.
Lì visse il resto della sua vita tra lussi e agi invidiabili, donne bellissime e ori, gozzovigliando - nascosto e senza affanni- assieme ad amici e conoscenti. Riteneva così, erroneamente, d'aver adempiuto al condivisibile precetto filosifoco di cui, piuttosto, non aveva affatto conoscenza.
Al tempo in cui i draghi li trafiggevano negli unici punti deboli che si conoscessero, sotto la zampa e nella pupilla, i draghi facevano, e per questa stessa ragione, strage di cavalieri. Ben gliene incolse che di draghi ce ne fossero pochi e vivessero per lo più in luoghi inaccessibili e impervi, come le Montagne Precipitose, le Paludi Fetenti e il Deserto dell'Eritema. Eppure, proprio quando il sangue sparso ebbe bagnato fin troppe armature ed i draghi versavano sull'orlo dell'estinzione, un cavaliere diverso dagli altri, atipico e scaltro, si era imbattuto in un uovo di tali creature, e piuttosto che rivenderlo a peso d'oro alle maghe perché ne ricavassero filtri contro forfora e impotenza, lo tenne semplicemente per sè, nascosto sotto fieno abbondante.
L'uomo s'improvvisò ben presto un allevatore di draghi, che ammansì e addomesticò per rivenderli, una volta fattisi adulti, ai cavalieri in cerca di fama.
Sfortunatamente per lui, essi divennero proprio in quegli anni specie protetta, per cui dovette abbandonare business e regno natìo per trasferirsi altrove, in Gallica, dove diede vita e fasti ad una scuola di frittatine ripiene a base d'uova e farina, dolci o salate, che ebbero molto successo.
Certa gente ha tutte le fortune.
Ciò che chiedo, più di tutto.
Così parlò aWilito alle 14:36 Tags brevi ma intensi, delirio, personaliVorrei essere la primordiale corporeità saturnina sognata da Steiner, entità cosmica il cui corpo è costituito di semplici variazioni di temperatura, e la cui forma è definita dalla posizione nello spazio di tali variazioni.
Fatto dunque d'una sostanza ancora più sottile dei gas, vorrei baciare un Arcangelo ed avvampare come una stella.
Poi, brucerei il mondo intero in un istante, per sempre.
Ieri sera passeggiavo a Campo de' Fiori. Le luci, le voci, il movimento ipnotico di cose e persone, e l'immobilità di alcuni saltimbanchi che talvolta imitano una statua egiziana e ieri, invece, un uomo in gran carriera, con tanto di cravatta al vento, passo rapido e ventiquattrore straripante. Il tutto rigorosamente immoto come in una fotografia, o in una glaciazione istantanea. C'erano fiumi di gente, molte straniere, che scorrevano in direzioni confluenti ed opposte, come vere e prorie correnti in cui noi tutti, simili a particelle d'acqua, scivolavamo cedevoli al moto pur essendone al contempo la causa.
Nel brusio scomposto una voce catturò d'improvviso la mia attenzione "...mi devi proprio credere!".
Una voce, d'una ragazza invischiata nella corrente opposta alla mia, si rivolgeva concitata ad una qualche amica, o amico, che ancora non riuscivo a scorgere.
"Questa, credimi, è la cosa più eccezionale al mondo," insisteva gesticolando vistosamente, come se tentasse con tutte le forze di trattenerla ancora per un secondo, prima d'esplodere.
"Quado l'avrai saputa" - era precisamente davanti a me, nel dire ciò - "non potrai più vivere come una volta, non potrai più dormire al solo pensiero. E' veramente grossa."
La ragazza mi distaccava sempre più, nel mentre, e compresi che la sua voce si faceva sempre più flebile, così ruotai la testa senza troppa disinvoltura, in verità.
"Sei pronta?" pungolava in lontananza quella sua amica, ma forse l'aveva rimproverata con un sei tonta? Non potevo esserne certo. Lottai senza speranza nel tentativo di liberarmi dalla invisibile morsa dell'imitazione degli altri ma senza successo. Le ultime parole, che mi giunsero oramai indistinte all'orecchio, stavano dicendo "Ti ricordi Mario? Bè, lui..." e poi più niente, solo il vago, insignificante brusio di prima.
Se Mario era l'amante d'una regina, o l'inventore dell'auto a moto perpetuo, o un angelo caduto per errore sulla terra, non lo saprò mai più perché come spesso succede, arriviamo sempre un filo troppo presto o troppo tardi, agli appuntamenti della vita.
So solo che lo scorno, al momento incurabile, fu presto, e con gran piacere, risanato da un gelato a tre tipi diversi di cioccolata. Quanto a Mario, invece, l'ho relegato, e per sempre, nel luogo che gli compete.
Il mito.