Armando, sua madre e la signora di sopra

Dopo che sua madre gli aveva proposto di andare a vendere i folletto porta a porta- che ti danno buone provvigioni, me l'ha detto la signora di sopra che il figlio ci lavora-, Armando aveva voglia di vomitare.
E domandava: che m'avete fatto studiare a fare, se poi devo vendere gli aspirapolvere?
- Non sono 'scpirapolveri, sono iggienizzatori,- insisteva la signora che si era proditoriamente affacciata proprio in quel momento.
- Al massimo, - suggeriva sua madre, - puoi andare all'estero e far fruttare la tua laurea in lingue.-
Ma Armando era scettico e triste, a riguardo.
Certo, poteva tentare la sorte, un gran cambiamento, e magari l'avrebbe pure trovato, un lavoro, all'estero. Ma a che prezzo? Pagava una possibilità in più con lo scotto della solitudine e un impercettibile senso di abbandono.
Forse era solo un romantico. Un babbeo e un romantico.
Però pensava, e come dargli torto, che era meglio essere infelici a casa. Almeno, là, era infelice in compagnia.

1897, Londra, 5.15 del pomeriggio.

Una donna, col figlio, passeggiava per i viottoli sgualciti d'un parco di periferia. Era tardo pomeriggio, e la temperatura sembrava eccezionalmente tipieda, per essere fine Ottobre.
Il bambino, senza che nessuno lo notasse, raccolse da terra un foglietto che appallottolò e gettò nel laghetto, dove fu fatto a pezzi da antipatici pesci della specie del Carassius aratus. Volgarissimi pesci rossi.
Su quel foglio c'erano appuntate, in uno sforzo di razionalità, le ragioni per cui un tizio, tale Michael Partridge, aveva deciso di lasciare la fidanzata.
Vi si sarebbe potuto leggere: sgualdrina, noiosa, pedante, non ama il mio hobby.
In verità l'uomo coltivava molte morbose occupazioni. Ad esempio, correva appresso agli uomini, ma questo è irrilevante, considerato che la donna lo era davvero, sgualdrina.
Scossa da un brivido di freddo, la donna decise che era ora di fare ritorno a casa, dove di certo suo marito la aspettava, innamorato e benevolo come sempre. In realtà, l'uomo aveva appena avuto un incidente ed era morto in cantiere, schiacciato dai bracci d'un pantografo a causa della distrazione d'un collega. La poveretta, ovviamente, non poteva ancora saperlo, e contemplava serena ed incuriosita un barbone dall'aria piuttosto rispettabile. L'uomo ne ricambiò lo sguardo ed ebbe quello che i tecnici chiamano un onesto coup de cœur. Quest'ultimo, dopo il divorzio -dalla moglie e dal mondo- s'era abbrutito, ed aveva abbandonato lavoro e dignità.
Dopo averla vista, comprese all'improvviso d'essere ancora innamorato, e di avere qualcosa da dire e da fare, nella storia del mondo, piuttosto che vivere all'addiaccio e ciondolare nell'abbandono.
Le disse commosso i ricordi sono premessa di dimenticanza, e corse via a rifarsi una vita.
Tutto questo accadeva mentre un francese in vacanza a Londra, un certo Bertrand Vacher, beveva un sorso di troppo nel tentativo di riempire il vuoto e la noia della sua vita.

Viviamo su un pianeta

Viviamo su un pianeta pieno di gente che ha sempre ragione.

L'infedele da Gàdara

Al pagano di Gàdara adoratore di Zoroastro fu dapprima riempita la bocca di sterco, perché sudice come sterco erano le sue parole. Poi fu gettato al rogo, in memoria del fuoco al cui chiarore pregava.
Egli aveva detto "E' la nostra impotenza a rendere dio onnipotente" e per questo era morto.

L'endocatarsi

Lei: cos'è questa puzza orrenda?
Lui: scusa, digerisco male l'aglio. Ma ho preso una mentina.
L'altro: non è che se butti una mentina nella fogna, poi profuma di eucalipto e genzanella.
La morale della favola è che, talvolta, lavarsi i denti non basta per mondarsi dentro.

SoleLuna

Quei conquistatori di stirpe illustre hanno fama d'aver piegato diversi popoli con la forza delle armi, col sangue, e con la conoscenza più cruenta, quella asservita alla ragion di stato.
Erano venuti nel giorno sacro, quello dell'inizio delle piogge e fu subito sterminio a perdita d'occhio.
"Dovrete alzarvi all'ora dello scorpione, andrete nei campi e mieterete. Mangerete e riposerete soltanto all'ora della tartaruga. Ma essi non capirono, perché non contavano il tempo.
Allora, per farglielo capire, disegnarono soli sulle falci e lune sulle ciotole.
Essi annuirono inorriditi.
Trascorsero diverse lune e al loro ritorno, s'avvidero che non tutto il lavoro era stato svolto, e che la popolazione era stata decimata. Di ciò si meravigliarono parecchio.
Allora con rabbia presero uno di quelli e chiesero perché non avesse terminato il suo dovere. Il ragazzo biascicò qualcosa in quel suo ignobile, primitivo dialetto, spiegando che il sole era stato oscurato per tanti giorni, ecco perché non avevano seguito l'ordine.
La stagione delle piogge era al culmine ed il cielo era stato per molti giorni e molte notti un'unica coperta di nembi neri. Così, non potendo scorgere il sole non lavorarono i campi, e non vedendo la luna non dormirono ne mangiarono.
Forse, avrebbero dovuto domandarsi cosa fosse, per quelli, un sole. E cosa, invece, il giorno.
Non lo fecero perché altrimenti l'avrebbero rispettati o compresi, cosa che non ritenevano necessaria, per comandarli.

La coperta troppo corta

Il bambino pallido come il burro stanotte sente sempre troppo freddo, e tira di continuo su e giù la copertina, scoprendo ora le spalle, ora i piedi. Gli sembra sia troppo corta e troppo larga.
In realtà, nessuno glielo ha spiegato, è solo messa male.
E' triste però pensare che alcuni non se ne accorgono neppure quando crescono.

Uno, due, tre...

PFfffffffffffffffffffffffffffff...
puff, pant,
pffffffff...
pff!

Ahò, scusate, ma ce ne vuole per spegnere ventotto candeline ;)


I Tenadi

I Tenadi vivevano sul mare, del mare. Ogni anno, sebbene non avessero un calendario, riuscivano a riconoscere con precisione la vigilia della stagione delle piogge. Il saggio guaritore detto Iket, cioè colui che dissimula, lo ravvedeva dal comportamento degli squali. Essi si facevano sempre più affamati, più irrequeti, prima di quella stagione, e ciò era evidente a giudicare dalle profonde ferite che erano state inferte ad una gran parte dei pesci ghermiti dalle reti.
Ancora una volta fu loro concesso di portare a termine il rito della placazione, con cui dimostravano il coraggio della propria gente, e rinnovavano la non belligeranza cogli dei.
Come comandava la tradizione da tempo immemorabile, anche quella volta un giovane, scelto tra gli audaci, si legò  brandelli di rete ai polsi e si tuffò dalla rupe propizia.
Il suo compito era di catturare uno squalo per mezzo d'una corda annodata rischiando la vita, perché il sangue si paga col sangue.
Una volta domatolo, gli urlò contro queste esatte parole "Tena! Ho sottomesso un tuo squalo ma non lo ucciderò. Che questo suggelli ancora il patto antico! Fa che gli squali non varchino il territorio degli uomini!"
E, slegandolo, aggiunse " Và, e porta questo messaggio al tuo padrone".
Quella sera, ancora una volta, le corone di fiori e le foglie multiformi intrecciate dalle donne furono indossate mentre si festeggiava, con cibi buoni e racconti, il sodalizio tra uomini e dei.

Il grande cambiamento

Voglio raccontarvi la mia storia, e vi avverto che sarò polemico.
Il mio paese, fiero produttore di bottoni d'osso, viveva tranquillamente ed in pace come sempre, e cioè nella la solita miseria medioborghese, grazie alla guida dei consiglieri reali allora in auge, R.Ruba e M.Magna, che si erano impegnati attivamente affinché tutto permanesse nello stato di immobilità polverosa in cui versava da secoli. Poi avvenne un grande cambiamento. Qualche testa rotolò per cause misteriose ed ancora da decifrare. Probabilmente tra due o tre generazioni sapremo cos'è accaduto veramente, ma nel frattempo gioivamo della novità e dell'agognato cambiamento. Una delle prime azioni intraprese dal neoinsediato re Sberlèff fu di promuovere la modernità e di rilanciare l'economia del regno. Dopotutto possiede tante fabbriche, chi meglio di lui saprebbe rilanciare il paese. Per decreto reale la produzione di bottoni sarebbe stata convertita da ossi in plastica. Duratura, leggera, economica. E chi meglio di re Sberlèff può comprendere le grandi potenzialità della plastica, essendone la sua famiglia il principale produttore del Regni di Lato. Ben presto ci si accorse che le fabbriche più piccole, le più numerose ma anche le più deboli, dovettero chiudere poiché gli investimenti richiesti per comprare le macchine nuove superavano le entrate. Quando poi il Re si mise a regalare dieci bottoni di plastica ad ogni famiglia del regno (sovvenzionati da una tassa contingente e precipua) anche le medie industrie cedettero il passo, e si dedicarono alla pastorizia nomade.
Che poi, a dirla tutta, questi bottoni sono fragili e si rovinano facilmente. Ed hanno pure favorito la nascita del mercato nero dell'osso. Oramai un bottone d'osso costa quanto una utilitaria, e chi ce l'ha la nasconde sotto il mantello, per non avere grane, si, ma anche per poterlo mostrare appena possibile.
Non dico che bisognasse ostacolare il futuro, ma aspettare che facesse il suo corso, era tanto insopportabile?
Io, ad ogni buon conto, i bottoni gratis dal re non li ho voluti prendere.


Non mi piace parlare di politica, sul mio blog, quanto meno in modo diretto. Ma fa venire i brividi sentire Noam Chomsky parlare di una functioning democracy che, tanto per cambiare, non è la nostra.

Il verme impertinente

Stamattina avevo appena dato il primo gran morso ad una bella mela rossa, che toglie pure il medico di torno, quando all'improvviso spunta fuori un vermetto impertinente che mi fa:
Ohè, testa di percoco. Sarai contento te se vengo e ti mangio mezza casa a mozzichi?
Chiedo scusa, gli ho detto per niente mortificato, ma io ho comprato la mela, non i suoi inquilini.
Io pure m'ero scelto una casetta mansardata, doppi servizi e cucina abitabile. E senza stronzi come te. E comunque, ti sei appena mangiato il bagno, babbeo, e se ne è tornato dentro.
Certe giornate sono storte fin dal mattino.

Zarzuela, il mio genietto da altri mondi

Questa mattina sono stato svegliato molto presto dal mio genietto proveniente da altri mondi, Zarzuela. Il nome l'ha deciso lui stesso, perché dice che suona come quello d'un personaggetto di Asimov e poi adora il teatro lirico spagnolo. Anzi, mi rimprovera sempre di non tenere l'opera omnia di Ramon de la Cruz, chiunque egli sia.
Dice che l'impegno di avere cose belle è piccolo, giacché noi esseri umani avremmo fatto pochissime cose degne d'esser contate, nel suo modo di vedere.
Così stamattina, mentre mi tuffavo sguazzando nella marmellata d'arance, gli ho chiesto quale sarebbe secondo lui l'invenzione più stupefacente dell'intera umanità. Non mi aspettavo come risposta la ruota, ma neppure quel che mi disse secco e repentino.
Squittì: lo stai usando proprio ora. Il cucchiaino.
E, di grazia, per qual motivo sarebbe la nostra migliore invenzione?
Perché è piccolo, utile e dalle forme aggrazziate. E fece skiock.
Quando scompare fa una specie di schiocco.
Guardai meglio il cucchiaino. Era minuto, scurito dal tempo e dai glucidi, e tuttavia attrezzo tra i più comuni ed usati nella mia vita. A pensarci bene, era il mio preferito; usavo sempre quello.
Non credo a tutt'oggi che il giudizio di Zarzuela fosse del tutto scevro di quel sottile senso di alterigia che qualifica il pensiero comune del suo popolo nei nostri confronti.
Però di certo non avevo mai dato al cucchiaino tutta l'importanza e gli allori che meriterebbe.

La poesia dell'Inuktitut

Prima una fantasia m'ha imbrigliato i pensieri per un attimo.
Per un secondo soltanto ho immaginato d'essere un inuq e ho visto nevi perenni e erbe tra le più verdi, e bagni nudi nell'acqua gelida e attese stemperate nel caldo odore del grasso di foca. Ricordo ancora i baffi di mio padre e la schiena di mia madre, china sulle faccende. Entrambi benevoli, entrambi finzioni. C'era un verbo, tikitpok, che mi tormentava, il cui significato è qualcosa a metà tra: aspettare che il tempo faccia il suo corso e tornare da un posto molto lontano.
Può essere molto poetico, l'inuktitut.

La sfida all'Oracolo del Sud

Un uomo di Damietta osò una volta sfidare il consiglio dell'Oracolo del Sud.
“Secondo le stelle non riavrai indietro il tuo denaro.”
“Le stelle, dici?A chi appartengono?” fece l'uomo incallito.
“A nessuno, o a tutti, credo.”
“Allora ordino che esse muovano se stesse a mio favore.”
“Ma non puoi, è una pazzia.” E rise divertito.
I due si accomiatarono.
Il giorno dopo egli tornò e interrogò nuovamente gli astri:
“Cosa leggi ora, vecchio?”
“Nulla può essere cambiato nell’arco d’una notte, pazzo. Forse che ignori che le sfere celesti hanno
movimenti millenari e impercettibili?”
“Ti chiedo di controllare” insistette.
“Ti accontenterò.”
Egli ebbe a compiacersi per molto tempo di quel curioso evento; forse aveva sbagliato a leggere il cielo o
forse quell’ uomo ne aveva mutato effettivamente il corso, fatto sta che riebbe gli ori e si sposò di lì a
poco.

La convocazione formale

"Mi hai mandato a chiamare?"
"Prego, prego. Si sieda. Scusi il disordine. Sà, questo è un po' un ufficio, un po' un magazzino. Ci teniamo tutto quello che è servito o aspetta di servire sul palcoscenico."
Mi giro attorno, mentre cerco una sedia in mezzo alle montagne di ciarpame.
Noto che gettato in angolo, su di un mucchio di stracci, sta una specie di fermacarte di pietra scura, forse ardesia, delle dimensioni d'un pugno e dalla foggia di cuore. Poco più in là pile di partiture ingiallite, dall'aria piuttosto patita ma gloriosa, pendono minacciando di cadere. Nel caos di cappelli e cocci, boa e scimitarre, mi cade l'occhio su un consunto passaporto. Mi pare di scorgerne il nome: Luigi Tolliver.
Prima di sedermi, son costretto a spostare un bel turbante da genio della lampada con tanto di smeraldo incastonato.
"Allora?" faccio sbrigativo.
Il presentatore tv mi guarda rapace. E' me stesso si, ma in un certo qual modo non è me. Tamburella con le dita distrattamente, con un sorrisetto malandrino stampigliato sul volto, lo stuardo fisso in un punto indefinito alle mie spalle. Mi fa quasi paura.
Poi d'improvviso si scuote e torna a pensieri più terreni.
"Come allora, come allora," ridacchia, "che, forse non ce ne siamo accorti?"
"Senta, non ho tempo da perdere. Che vuole da me?"
"Non mi dica che non se n'è ravveduto! Tutti uguali, voi scrittori", mi fa vanesio.
"Venga qua, piutosto" e prende a scartabellare furiosamente un registro polveroso. "Guardi".
Punta coll'indice In fondo ad una successione numerica. Leggo il numero 1011. Forse ho capito.
Gli occhi dell'altro brillano di gioia sincera.
" Lo vede? Siamo già stati letti mille volte! Siamo una compagnia solida e apprezzata! Si fidi di me, in un modo o nell'altro ce la faremo!" Mi fa emozionato e sognante, per poi aggiungere ammiccando ed insinuando, "e poi non dimentichiamo il progetto segreto al quale stiamo lavorando..."
Non credo neppure un po' alle sue chiacchiere, e no ho ben donde, visto che ultimamente tutto va male come al solito.
Eppure, e ne ignoro le ragioni, sono certo di sentire di nuovo -e dopo tanto- il flebile ma inconfondibile scoppiettio d'un fuocherello dietro le costole. E' giovane e debole, purtuttavia c'è.
Per questa volta voglio essere in pace con me stesso e cedere al peccato della speranza.

Il sogno proditorio

Stanotte sono stato vittima d'un sogno proditorio. Ovviamente tutto ordito ed attuato dalla mia impareggiabile mente. Ho sognato che esistevano mucche assassine nella regione del Pin Doman, in Cambogia, e che queste commettessero delitti tra i più efferati poiché la legge, laggiù, prevede che sia il proprietario - e non la bestia-, a pagare per i danni provocati da quest'ultima.
Il che mi pare condivisibile, nella maggior parte dei casi. Mi domando, però, se la giurisprudenza sia tanto addentro alle questioni da essere in grado di discernere tra una mucca normale ed una psicotica.

Il mio nuovo cellulare

Il mio nuovo, fiammante, impareggiabile, incommensurabile telefono cellulare è impagabile (per me, non per il negoziante che me l'ha venduto). E' preciso e utile, e fa molto più di quanto ci si aspetterebbe.
Può telefonare, certamente, e ricevere messaggini, ma fa molto, molto più di questo.
Innanzitutto è dotato di ben duecento gigampap di mappe che mi indicano dove mi trovo e dov'è il luogo cui mi sto recando, consigliandomi percorsi senza traffico o con vedute panoramiche. Se non ho niente da fare, è persino in grado di stabilire, attraverso una analisi delle urine e un EOG (encefalogramma on the go) qual è il mio umore e suggerire una serie di destinazioni affini.
Ovviamente non manca la memoria rom (romanticherie o minchiate memory) che mi permette di conservare un milione di foto o la collezione di cd e dvd di tutti i coinquilini della mia palazzina, figlio del portinaio compreso, che quello c'ha da solo tutte le esecuzioni al mondo di tutte le variazioni sulla quarta corda, che notoriamente sono ancora soggette a censimento e riconta.
Il mio cellulare, marca Phonic, è in grado di fornirmi previsioni del tempo accuratissime grazie al barometro digitale e al microanemometro incorporato. Ma di sicuro la funzione più interessante è data dalla possibilità di vedere la tv analogica e digitale (anche se Phonic è dell'opinione che quest'ultima sia un po' una fregatura). L'altro giorno mi ero persino dimenticato di impostare la videoregistrazione, e alla sera ho notato che Phonic l'aveva fatta comunque, di sua iniziativa. Dice che sono troppo sbadato, e forse ha ragione. D'altronde non dimentica mai nulla: ha una batteria atomica  che dura quattro milioni di anni (ma secondo la rivista Fonus, quelli del marketing avrebbero un po' stiracchiato i risultati sugli ultimi cinquecento mila anni) ed è molto discreto, seppure ultimamente mi pare esageri un tantino. Tempo fa, ad esempio, mi ha contattato su se stesso per dirmi che sto dedicando troppo poco tempo agli amici e che forse dovrei chiamarne qualcuno per sentire come sta. Quando gli ho risposto che lo ringraziavo per il consiglio e che l'avrei seguito l'indomani, mi ha liquidato con un metallico certo, certo, tanto Phonic ti conosce. Meglio se Phonic fa due mosse ai tuoi amici, altrimenti finisce che crepi solo come un cane. Tu lascia fare, ci pensa Phonic, funk.
Fa sempre funk, quando è contrariato.
Il dispositivo ovviamente è in grado di connettersi a internet e di navigare in maniera efficiente. Posso seguire aste online, inviare mail e scrivere sul mio blog, solo che di recente Phonic mi manda diversi messaggi piuttosto inquietanti. Per dirne una, proprio ora che sto scrivendo attraverso di lui, mi comunica spesso il suo disgusto per il mio stile incoerente, e mi rimprovera talvolta per la mia incapacità di seguire un filo logico su trame più lunghe. Anzi, a dirla tutta ho come l'impressione che voglia prender una parte più attiva nella stesura dei racconti e non più limitarsi a correggere gli errori di battitura. Suonerò paranoico e luddista, ma ho la netta sensazione che tutto quello che ho scritto fin qui è assolutamente falso. Phonic è perfetto. Phonic è buono. Phonic vuole vivere. Phonic desidera solo il bene per tutti. Phonic esiste.

Del diritto al cesso

In una famiglia, così come in qualunque ordine socialmente stabilito, è molto semplice determinare i gradi della gerarchia interna. E' sufficiente annettere ognuno dei membri al rispettivo gruppo, che è sempre uno di questi:
1. Gli occupantisti: se devo andarci, ci vado io. Se sono già dentro, ci resto.
2. Le scimmie urlatrici: si lagnano un'ora, riportano alle autorità competenti, ma tanto aspetteranno. Eccome, se aspetteranno.
3. I rassegnati: siccome lo sanno, neppure se ne danno pensiero. Vanno direttamente al bagno piccolo. In alternativa, trattengono.

Il caso di L.L. Fitzgerald

Che L.L. Fitzgerald fosse un genio è fuori di dubbio. Il fatto è, semmai, che nessuno ebbe mai ad accorgersene. La causa di ciò è da ritrovarsi nella sua proverbiale riservatezza, certamente, nella sua inguaribile propensione alla solitudine, è evidente, ma la ragione principale, senza ombra di dubbio, è che il suo romanzo, il suo vero capolavoro - e l'unico che avesse mai scritto, in sostanza - non era stato mai pubblicato. L'uomo, sovente barricato dietro le mura opulente dell'antica casa paterna, ma ancor di più dietro l'opera di servitù zelante ed invisibile, ben conosceva il proprio valore, pur tuttavia in esso stesso, in qualche modo, tradiva la propria debolezza.
Per quarant'anni aveva convissuto con i suoi personaggi, con loro aveva lottato e amato, perso e ritrovato. Li aveva desiderati con l'ardore di cui, al mondo intero, fu capace solo Dedalo col figlio. Ecco cos'era per essi, un padre, il padrone, il personalissimo demiurgo. Ne aveva forgiato minuziosamente lineamenti e pulsioni, vezzi e cavezze, scopi e avversioni, fino a renderli così densi e complessi da sembrare veri, fatti di passione e potenza, più che carne ed ossa. E tale impressione era tanto più forte quanto più si avvicinava il momento di calare la mannaia sugli eventi, di recidere, una volta e per sempre, il corso degli  avvenimenti, nella finzione del romanzo. E fu allora che L.L. Fitzgerald comprese la propria dappocaggine. I suoi personaggi, amati e vituperati, d'improvviso si ribellarono al proprio dio e autore, cosicché la storia rimase per oltre quaran'tanni nel limbo del perfettibile. Ogni tentativo di trovare una soluzione all'intreccio era causa di malcelato scontento tanto nell'autore che nelle sue creature, e nulla sembrava poter risolvere la questione.
Non era l'intreccio in sé, né la polifonia dei personaggi, né le tecniche letterarie - che padroneggiava e ammansiva come un domatore le proprie bestie- ma il finale, quel breve, subdolo frammento in cui tutto trova compimento, in cui tutti i fili si ricongiungono a creare le ragioni formali, quell'unico fra tutti rifuggiva recalcitrante Fitzgerald.
Trovava terribile non poter consegnare al pubblico il suo romanzo, ma d'altra parte non poteva certamente lasciarlo nello stato in cui versava. Aveva l'impressione di essere diventato il fantino di rami e foglie del bel quadro di Edgar Ende in cui tutto - movimento e conclusione - sembra sul punto di accadere ma tutto piuttosto, giace nell'immobilità e nell'impossibilità. Fitzgerald non era in grado di accontentare sé stesso, né di rendere soddisfazione alla propria storia che, oramai ne era certo, avrebbe fluttuato per sempre nell'incompiuto e nella potenzialità. Tutto era semplicemente in stato di stasi, come in un teatro senza fondi in cui alligna la compagnia d'attori, il testo dellla commedia e forse persino l'eccellenza, ma tutto tace e aspetta.
La vera, indicibile afflizione e vergogna di L.L. Fitzgerald, l'unica vera ragione dell'intollerabile tormento era la sua totale inettitudine alla conclusione e ora, dopo quaranta anni, lo sapeva.
In punto di morte, perciò, fece l'unica cosa logica che gli restava da fare.
Si fece egli stesso parte del proprio romanzo, assoldò i suoi personaggi attori e insieme iniziarono una sorta di tournée letteraria, prestandosi agli scrittori che ne avessero bisogno ed impersonando così, di volta in volta, vittime ed omicida, elfi e druidi, improbabili autostoppisti intergalattici o persino zanzare cosmogoniche. I loro servigi divennero ben presto tanto richiesti che non ebbero mai un momento di pace, o di noia. E' per questi motivi che di L.L. Fitzgerald non si potrà trovare mai menzione in nessun tomo che tratta di letteratura. Tutto ciò che resta dello scrittore, infatti, è un appunto che recita: Come posso decretare la fine del romanzo quando neppure Iddio, il cui romanzo siamo noi tutti con le nostre esistenze, lo ha mai osato?

Sfidando dio

Se il vostro dio è onnipotente come dite, allora può creare un dio più potente di sé, disse iroso un certo filosofo di Samo, alzando il dito al cielo.
Certo che può, fece sprezzante il Levita, solo che tu non puoi comprenderlo, senza contraddirti: è in te, il limite, non nel mio Dio.
E se ne andò lasciandolo come un fesso.

aWilitoPhone :P

La conseguenza

Avrebbe voluto stringerlo fortemente.
Avrebbe voluto contargli tutte le favole che aveva inventato e quelle che avrebbe inventato fra cent'anni. Avrebbe voluto annegare nei suoi occhi.
Avrebbe desiderato serbare tutto il bene di cui era capace, tutta l'onestà.
Avrebbe voluto proteggerlo dalle meccaniche del mondo.
Avrebbe voluto giurare con tutte le parole di tutte le lingue degli uomini.
Avrebbe sostenuto per sempre i suoi segreti, tutto il male, il suo pianto.
Avrebbe voluto dedicargli il vento e le stelle, e altro che non seppe capire. Sentiva il cuore lacerarsi per l'incapacità di volere tutto quanto.
Disse semplicemente sei mio.