Gerlof Hoffman

Lo vedi da te. Il dolore è l'acume dei sensi. Più ci senti, più sei vivo e maggiore dolore ti tormenterà. E soffri, ti agiti, rantoli prima di crepare. Questa erba qua, invece, ti fa star bene. Ti libera dagli affanni, ferma i pensieri ed è piacere, e calore e pace fuori e dentro di te. Ma è assenza d'affanni, è star bene. Ogni boccata di questo fumo è un po' di amore che se ne va. Ami sempre meno, è vero, ma stare bene significa perdere di vista significati e sensazioni del corpo, come avere mille orecchie ma essere mille volte sordi. Morire è l'estasi che s'avvera e scioglie l'anima come tempera con l'acqua, è l'annientamento del male: niente più nuocerti dopo morto, ti pare? Prendine ancora un po' e lentamente muori. La morte è non esserci e non sapere di non esserci. E l'assenza di coscienza è la libertà più grande: l'unica che dona la pace e lenirà i tormenti e sopirà il rantolio. L'estasi pura, il punto tra niente e infinito, l'indefinibile sospiro del tempo che smette di vibrare. Pace è la coscienza che si congela come morire è la stasi del pensiero e,dunque, di quel dolore che rifuggiamo.

Questo è quello che diceva Gerlof Hoffman mentre l'inquisitore serrava lentamente l'anello al piffero del baccanaro.

Respira!

Respira!Respira!RESPIRA!
Rumori di gratteggio, rasposi e acuti come squittii.
Rumori di sfregamento morbido. Un lembo di stoffaccia lisa e salvatrice. La speranza sta sempre nei posti più improbabili.
Ancora gratteggio e ancora sfregamento.
Una imprecazione.
All'improvviso il redivivo respira. Un respiro un mi bemolle maggiore ha increspato la superficie del mondo e persino Dio l'ha sentita.
Il mio pianoforte è tornato in vita.
IO l'ho fatto tornare in vita.
Ora sono il suo dio.

Il posto dove vivo io

Il posto dove vivo io, di notte ci sono le lucciole.

Ma le mie non battono.

Domenica: maelström domestico e morte dell'abete

La Casa che muta oggi è stata scorretta, molto scorretta. Anzi, una emerita stronza.
Uno di solito pensa che la Domenica ci si riposi. Lo pensa il panettiere, lo pensa il prete - in realtà fa lo sponsor alla vacanza, perché lui lavora - tutti lo pensano, tranne chi abita la Casa che muta.
Invece di riposare, mi tocca starle dietro come a un bambino col pannolino pieno. Poichè è impossibile che due sole persone producano tanta quantità di sporco è evidente che la casa ci mette del suo. Un po' perché è assertiva e desidera sottolineare la propria autorità, un po' perché non abbiamo mai avuto il tempo di ammansirla sul serio. E poi l'amiamo, davvero, ma oggi ha davvero esagerato.
Tutto è iniziato col lavandino. Più io lo scongiuravo di mandare giù e più lui faceva i capricci e si sporcava e sputacchiava. Allora gli ho fatto il solletico sotto al lavello, che so io come prendere certi discoli. Ma s'era impuntanto: voleva averla vinta lui pure. Diversi e vani tentativi dopo, decido per le maniere forti. Ho miniaturizzato un sottomarino e ci ho schiaffato dentro una ciurma esperta - dodici mensilità anticipate e buoni pasto- ma la scienziata russa e il comandante si sono innamorati prima dell'ingorgo e, come si conviene in questi casi, hanno deviato per il Mar delle Antille e mi hanno lasciato  lì come un idiota. Tutte uguali, le scienziate russe.
Ma il colmo è stato un altro. Mentre con una mano strozzavo le tubature del lavello per costringerlo a inghiottire, con l'altra mi toccava pure tenere i rami all'abete moribondo.
Urge una spiegazione.
In terrazzo ho - anzi avevo, ora vi spiego - un abete risalente al Natale '86 e da allor in fin di vita. Il poverino sembrava sempre là là per schiattare. Moscio e sbilenco, aveva aghi radi e giallastri sopra; sotto niente.
Invece di morire dignitosamente, però, lui perdeva gli aghi. Una montagna di aghi. Continuamente.
E così per mesi, slavine di aghi di pino hanno inondato il terrazzo e nulla potevo, se non pulire e pregare.
Che guarisse o crepasse del tutto, non lo so più neppure io. E quando decide di tornare al paradiso degli abeti (sponsored by Ikea)? Il giorno del lavello otturato e della palude fetente.
Già, perché una volta rimosso il cadavere arboreo, mi ritrovavo tutti gli ultimi aghi di pino - nessuno escluso - in metà terrazzo mentre l'altra metà era coperta da una fanghiglia melmosa ristagnante e fetida di aghi marci. Sulla superficie maleodorante dell'acqua i miasmi vagavano come spiriti senza dimora, precari pure loro, poveretti.
Insomma, intanto che cercavo di domare gli eventi, il pentolone dell'acqua era finalmente giunto a bollore così, senza alcuna pietà, la verso tutta nel lavello e poi giù di sturalavandini.
Mi sono scottato con gli schizzi e ho provato disgusto per ciò che ho visto uscire: resti del sugo di ieri, piccoli lembi di pelle dei peperoni dell'altro giorno e persino i sandali consunti del precedente padrone di casa, taglia 42.
E intanto l'abete invocava il mio perdono e più piangeva e più perdeva aghi e più perdeva aghi e meno lo perdonavo.
In un ultimo, esasperato, vorticoso risucchio del poderoso sturalavandini finalmente l'ingorgo si sgorga ed un maelström ciclopico per poco non risucchia pure me e lo sturalavandini.
A pezzi, coperto di bottarga di scarico e gocciolante cose inenarrabili, ho assistito al trionfo della vita - la linfa che passa nuovamente e con vigore nelle tubature - e alla mestizia della morte che fino all'ultimo mi riempie di aghi d'abete.
Oggi è stata un disastro.
E domani? Per fortuna che domani lavoro.

Lo scricciolo di biologo

Lo scricciolo di biologo oggi s'è impuntanto che vuol fare il pianista, solo che non ha fatto i conti con la Casa che muta, che è quella dove vivo io. Ed è anche la casa a cui tutti noi abitanti - mobili e immobili - dobbiamo sottostare, volenti o nolenti.
Ma di solito nolenti.
Seduto sul pomposo sgabello laccato, lo scricciolo di biologo spostava continuamente le terga, come avesse qualche fastidioso prurito da pubblicità di sapone intimo. Non trovava una posizione comoda: gli sembrava sempre di essere troppo a destra o troppo a sinistra rispetto alla tastiera.
In realtà - ma non poteva saperlo - lo sgabello si muoveva di continuo e impercettibilmente, da una parte e dall'altra, infine inclinando le zampe anteriori e poi quelle posteriori come una gazzella di Thompson al galoppo, solo molto più lentamente. E' sempre stato uno sbruffone, quello sgabello. E da quando ha fatto sedere un famoso pianista dice che non sopporta più quelli senza diploma. Va' a capirlo.
Ma la vera vigliaccata l'ha fatta quel ramarro del pianoforte a coda, in combutta con la Casa che muta e lo sgabello. Sai che faceva? Ogni volta che il poveretto imparava una scaletta di note, quello gli mescolava i tasti di sotto.
Così una sequenza in mi maggiore - si sol diesis la si sol diesis e così via giù fino al si di chiusura dell'arpeggio - diventava un re bemolle minore con tre diesis di troppo e un paio di note da scala endecatonica che non si capiva da dove venivano fuori.
Io di qua dicevo - impegnati o Fauré si rigira nella tomba -
Invece Fauré, dal paradiso dei pianisti, e pure lui in combutta cogli altri, ridacchiava sotto i baffoni alteri di uno che su certe cose la sa lunga.

La differenza tra me ed il ragazzo eternamente insoddisfatto

Mi sembra sorprendente, persino ovvio, ma l'ho capito solo ora ed ha a che fare con quegli imprenditori cialtroni, disonesti e con le pezze al culo che riempiono il mio paese.
La differenza tra me ed il ragazzo eternamente insoddisfatto è che io vorrei che anche gli imprenditori cialtroni seguissero le regole. Lui, invece, maledice l'Italia perché non gli permette di infrangerle.
Ed è per quello che sarà per sempre inappagato: perché lui è un poveraccio come me.

Il professore dalla coscienza aquilina

Il professore dalla coscienza aquilina cerca di spiegare ad alunni svogliati che in un sistema socialmente costituibile la mediocrità troppo a lungo tollerata - nella politica, nell'imprenditoria e nella diffusione della conoscenza - ingenera un pernicioso circolo virtuoso tale che solo la mediocrità avanza e fiorisce, laddove a perire è l'amore per la comunità, la competenza tecnica e, in ultima analisi, la verità stessa.
Su questa ipotesi ha costruito e dimostrato un'intera tesi che in qualunque paese gli avrebbe valso allori e riconoscenze pubbliche.
Se non che, vive proprio in un paese in cui il pregio e l'acume non vengono granché premiati, per cui è prevedibile per lui una morte anonima e senza clamore. E quel che è peggio è che se ne rende conto.

Il voyeur a tempo pieno

Il voyeur a tempo pieno ammirava trasecolato la ragazza sullo schermo mentre si esibiva nelle porcate più porche che una porca gran porca come quella potesse osare.
Ne studiava le forme sode, i lineamenti tondi, i movimenti perfetti ed erotici, ipnotizzato come un cobra ed il cobrino all'insù. Dopotutto aveva pagato 5 dollari per l'iscrizione a vuvuvù tispoglitù puntocom ed era il minimo che potesse fare.
A un certo punto, non ci poteva credere, il sistema aveva estratto a sorte lui - proprio lui - per il love jackpot: praticamente un'occasione irrinunciabile. Una scritta pulsante e lasciva lo informava che con un solo dollaro la ragazza sarebbe stata solo sua per ben 5 minuti, lasso di tempo in cui avrebbe potuto chiederle qualunque cosa e comunque più che necessario per i modesti scopi di cui era capace.
Con un filo di bava alla bocca - e le endorfine al galoppo sugli ormoni sellati - tirava fuori tremante la carta di credito e si preparava allo spettacolo. Da demiurgo dell'eros, questa volta, oltre che spettatore.
Partito l'addebito, istantaneamente il riquadro del video si allargò, ma l'eccitazione e la sorpresa dell'improvvisa zoomata intima lo colpirono inaspettatamente e altrettanto aspettatamente risolse gli ardori d'amore in pochi secondi di vibrante - ridicolo - exploit.
Rimase assorto due buone manciate di secondi, vergognoso, con la libido ripidamente scemata ed una ragazza piuttosto annoiata dall'altra parte del cyberspazio che lo incalzava con domande tipo ora che si fa, padrone? Diamoci una mossa che tra 3 minuti stacco.
Il voyeur a tempo pieno non ebbe il coraggio di rispondere. Così, senza argomenti né spinte erogene, chiese esitante tu ora che fai?
La ragazza, imperturbabile e per niente sorpresa gli fece guarda, ora mi viene a prendere il mio ragazzo e andremo a cena da amici suoi a vedere una cagata di partita di calcio che comunque sia lo sa che io il calcio lo odio però tanto non gli importa mai niente di quello che penso io. Che poi, comunque sia speriamo si sia ricordato di lasciare il ciuccio a mia madre, che l'altra volta non l'ha lasciato e la bimba non ha voluto saperne di addormentarsi tutta la notte, povera donna, e comunque che mi aspetto da uno così, figurati che una volta si è scordato persino se era sposato o no. Roba da ricovero o da corna, ma più da ricovero, mi sa.
I
l voyeur rimase di sasso. Chiese solo domani sera ci sei? No, ciccio, domani tocca a Veronikah e comunque sia ho preso le ferie che vado a Sharm una settimana. Cliccami ancora, eh?
Il video divenne tutto nero, ed il voyeur a tempo pieno tacque lungamente.
Per molto tempo aveva ritenuto gli spettacolini via web una realtà virtuale, un feticcio della vita biologica, una manciata di bit, un nulla. Invece ora era tramortito dalla consapevolezza che dall'altra parte c'era una vita vera fatta di cose, persone, eventi e contrattempi.
L'unica realtà virtuale ed inconsistente era la sua.

Essere polentoni o terroni

Essere polentoni o terroni non è un'estrazione geografica.

E' una categoria dell'anima: ci si nasce.

I peperoni

I peperoni non sono pesanti. Sono pesanti solo per chi non li digerisce.

Stanotte pensavo

Stanotte pensavo che il nostro universo rappresenta una singolarità poiché differisce per un solo particolare da altri universi simili. Facciamo le stesse cose, mangiamo le stesse cose, parliamo le stesse lingue e c'è persino un numero infinito di me stessi che in questo momento stanno scrivendo queste parole.
La differenza tra noi di questo universo e tutti gli altri è, poi, anche la spiegazione della nostra schizofrenia congenita e incurabile: altrove, le persone si consolano per motivazioni biologiche.
Sui polpastrelli delle loro mani, infatti, affiorano terminazioni nervose molto particolari, attraverso le quali essi possono - semplicemente tenendosi per mano - condividere il dolore fisico e la stanchezza tra di loro, in parti uguali, dividendolo di volta in volta.
E' come se la sofferenza fosse un liquido amaro e, versandone un po' nei calici di tutti di volta in volta, si dimezzasse, così che tutti potessero berne un quantitativo troppo esiguo per star male, troppo poco da essere insopportabile.
Così, attorno al capezzale d'un moribondo, tutti cinti per mano li vedo ridere, scherzare e godersi la vita come stessero su un prato in una giornata di primavera.
Nel nostro universo accade dunque che sogliamo stringerci come fanno tutti gli altri, ma difettando delle opportune terminazioni nervose, il male non può essere condiviso e resta confinato nel corpo di uno solo, che langue e s'appassisce.
Per sopperire a questa grave menomazione, la natura ha inventato l'empatia, che però non è altrettanto efficace; ecco perché non siamo veramente toccati dal dolore, se non ci riguarda personalmente.
Questo è quello che pensavo stanotte, mentre un un'unghia incarnita non mi faceva chiudere occhio.

Il giovane dal radioso futuro

Il giovane dal radioso futuro vive in un posto dove, la sera, la natura si liquefa e si sente profumo di glicine.
Credeva fosse solo una figura retorica usata dai poeti.
Per cui trovava un eccezionale privilegio che esistessero ancora posti così dove poter condurre vite normali.

Oggi la forza di gravità

Oggi la forza di gravità mi tira più dalla schiena che dal culo.

Tempoperso

Oggi, d'improvviso, il computer ha smesso di funzionare.
Allora l'ho aperto, ho smontato la ram, ho controllato che fosse inserita bene. Niente da fare, sembrava tutto a posto. Ho ripulito la ventola del processore, ho annusato la circuiteria, ho fatto una coccola alla gpu, ho dato una strigliata alla firewire ed ho supplicato tutte le usb. Non c'è stato verso di riaccenderlo.
Poi, mi sono accorto che anche il cellulare non stava caricandosi; ed era attaccato alla stessa ciabatta.
Maledico la ciabatta, che secondo me non era neppure tanto a norma, e cerco di ricordarmi dove ho messo il suo scontrino. Magari, mi suggerisco, me la cambiano. E se poi si rompesse ancora? meglio comprarne un modello diverso, forse.
Nella vecchia scatola non c'è, nel cassetto neppure, per terra menchemeno, nel portafoglio neanche per sogno, in dispensa, nel fosso delle marianne, in un cratere della luna. Nemmeno in una piega dello spaziotempo, s'è andato a infilare. L'avrò perso in un universo parallelo, almanacco dentro di me. Quindi, tecnicamente, non l'ho neppure mai posseduto.
Mentre ritorno sui miei passi, scopro che la ciabatta non c'entra.
Era la presa della corrente a non funzionare. Attacco una lampada e non fa luce. Eureka, ecco cos'era.
Smonto il coperchio e mi taglio nel maneggiarlo. Impreco per il taglio e anche perché ho terminato l'acqua ossigenata, disinfetto con l'infallibile tecnica del soffio e ritorno al mio posto, rassegnato e afflitto.
Svito le viti, sfilo i fili. E' tutto a posto. E' tutto stramaledettamente, vaffanculamente tiprendesseuncolpo a posto.
Una voce, gorgheggio d'angelo, mi fa è scattata la corrente.
Scopro che la casa che muta ha due linee di corrente, una per l'abat-jour e l'altra per tutto il resto.
Premo l'interruttore e tutti gli ingranaggi tornano a sferragliare come locomotive.
Da lontano, un risolino soffocato e continuo, insopportabilmente beffardo.
E' la Casa che muta che si diverte alle mie spalle. M'avrà fatto uno scherzo, tutto qua.
Se non altro, è finalmente chiaro chi comanda qui.