Che L.L. Fitzgerald fosse un genio è fuori di dubbio. Il fatto è, semmai, che nessuno ebbe mai ad accorgersene. La causa di ciò è da ritrovarsi nella sua proverbiale riservatezza, certamente, nella sua inguaribile propensione alla solitudine, è evidente, ma la ragione principale, senza ombra di dubbio, è che il suo romanzo, il suo vero capolavoro - e l'unico che avesse mai scritto, in sostanza - non era stato mai pubblicato. L'uomo, sovente barricato dietro le mura opulente dell'antica casa paterna, ma ancor di più dietro l'opera di servitù zelante ed invisibile, ben conosceva il proprio valore, pur tuttavia in esso stesso, in qualche modo, tradiva la propria debolezza.
Per quarant'anni aveva convissuto con i suoi personaggi, con loro aveva lottato e amato, perso e ritrovato. Li aveva desiderati con l'ardore di cui, al mondo intero, fu capace solo Dedalo col figlio. Ecco cos'era per essi, un padre, il padrone, il personalissimo demiurgo. Ne aveva forgiato minuziosamente lineamenti e pulsioni, vezzi e cavezze, scopi e avversioni, fino a renderli così densi e complessi da sembrare veri, fatti di passione e potenza, più che carne ed ossa. E tale impressione era tanto più forte quanto più si avvicinava il momento di calare la mannaia sugli eventi, di recidere, una volta e per sempre, il corso degli avvenimenti, nella finzione del romanzo. E fu allora che L.L. Fitzgerald comprese la propria dappocaggine. I suoi personaggi, amati e vituperati, d'improvviso si ribellarono al proprio dio e autore, cosicché la storia rimase per oltre quaran'tanni nel limbo del perfettibile. Ogni tentativo di trovare una soluzione all'intreccio era causa di malcelato scontento tanto nell'autore che nelle sue creature, e nulla sembrava poter risolvere la questione.
Non era l'intreccio in sé, né la polifonia dei personaggi, né le tecniche letterarie - che padroneggiava e ammansiva come un domatore le proprie bestie- ma il finale, quel breve, subdolo frammento in cui tutto trova compimento, in cui tutti i fili si ricongiungono a creare le ragioni formali, quell'unico fra tutti rifuggiva recalcitrante Fitzgerald.
Trovava terribile non poter consegnare al pubblico il suo romanzo, ma d'altra parte non poteva certamente lasciarlo nello stato in cui versava. Aveva l'impressione di essere diventato il fantino di rami e foglie del bel quadro di Edgar Ende in cui tutto - movimento e conclusione - sembra sul punto di accadere ma tutto piuttosto, giace nell'immobilità e nell'impossibilità. Fitzgerald non era in grado di accontentare sé stesso, né di rendere soddisfazione alla propria storia che, oramai ne era certo, avrebbe fluttuato per sempre nell'incompiuto e nella potenzialità. Tutto era semplicemente in stato di stasi, come in un teatro senza fondi in cui alligna la compagnia d'attori, il testo dellla commedia e forse persino l'eccellenza, ma tutto tace e aspetta.
La vera, indicibile afflizione e vergogna di L.L. Fitzgerald, l'unica vera ragione dell'intollerabile tormento era la sua totale inettitudine alla conclusione e ora, dopo quaranta anni, lo sapeva.
In punto di morte, perciò, fece l'unica cosa logica che gli restava da fare.
Si fece egli stesso parte del proprio romanzo, assoldò i suoi personaggi attori e insieme iniziarono una sorta di tournée letteraria, prestandosi agli scrittori che ne avessero bisogno ed impersonando così, di volta in volta, vittime ed omicida, elfi e druidi, improbabili autostoppisti intergalattici o persino zanzare cosmogoniche. I loro servigi divennero ben presto tanto richiesti che non ebbero mai un momento di pace, o di noia. E' per questi motivi che di L.L. Fitzgerald non si potrà trovare mai menzione in nessun tomo che tratta di letteratura. Tutto ciò che resta dello scrittore, infatti, è un appunto che recita: Come posso decretare la fine del romanzo quando neppure Iddio, il cui romanzo siamo noi tutti con le nostre esistenze, lo ha mai osato?
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