L'etica del lavoro immorale

Lavoro significa che devi credere in chi ti paga lo stipendio, anche se non ci credi più. Devi passare sopra a porcate, menzognette, soprusini e malefattuzze, perché così è e così vogliono che sia.
Lavoro implica credere con pervicacia a ciò che diciamo, anche se non ci crediamo; significa perorare cause perse e ingiuste, pur sapendo quanto siano perse e ingiuste; la chiamano professionalità, quel che ti dico di pensare tu lo pensi sul serio. In alternativa, reciti. Come dire, o sei un idiota di italiano medio boccalone, o devi meritarti l'Oscar.

Certo, si può sfidare le leggi dell'equilibrio e dell'ovvietà come funamboli, con la diplomazia, ammiccando senza ammettere, sottintendendo senza asserire. Ma è una ricerca logorante e dai risultati temporanei. E' una volgarissima pezza, cucita sapendo già che precede soltanto strappi ancora più insanabili. L'etica, qualcuno dirà, finisce dove inizia lo stipendio, e alla fine sono stato bravo. Ne rendo atto a me stesso.

Ma per chi è di indole buona, seria e fondamentalmente onesta, ciò rappresenta una insopportabile violazione della coscienza, una barbara incursione nei terreni del'amor proprio.
In ultima istanza, non è niente di grave: le cose andranno a posto da sole, in un modo e nell'altro, e soprattutto avrà giustizia chi la merita veramente.
Ma è con meccanismi come questi che sono stati condotti tutti i più grandi crimini contro l'uomo, il mondo e Dio. E mi fa male.