"Tu m'appartieni e farai ciò che comando!" Gli urlai.
Sprezzante della mia ira, stette lì a braccia conserte, sordo alle mie richieste.
"Bada che la mia pazienza ha un limite. Ora farai l'uomo sull'autobus. L'ho già creato per te. E' quello lì, vecchio e rugginoso, coi sedili in pura finta pelle rattoppata. Il tuo posto è vicino la signora spigolosa e rattoppata come i sedili. Secondo il copione dovreste parlare fino a quando lei..."
Osò dire di no. Disse semplicemente "no". Era davvero un no.
Un urlo mi sfuggì incontrollato.
"Hai dunque la sfrontatezza di negarmi il servigio?"
Alzò la testa e in atteggiamento di sfida "Esatto."
"Te la sei cercata." sussurrai.
Appallottolai il foglio su cui avevo iniziato il racconto e lo gettai nel cestino.
Avevo voluto creare un personaggio eccezionale, volitivo, supponente ed autonomo, ma avevo esagerato: era tanto forte da sentirsi superiore al racconto cui apparteneva, e per questa sua stessa natura si rifiutava di prendere parte alla finzione, di soggiacere alla mia autorità e al mio capriccio, di piegarsi alle necessità elettive.
Che iniquo, intollerabile spreco.
L'uomo con le mani di gigante si fece coraggio e rilesse ancora Attenzione, può causare disturbi e dolori all'addome e all'intestino...emorragie...spasmi bronchiali, eruzioni cutanee... potrebbero avvertirsi dei ronzii...ritardo del parto... Per fortuna non sono incinto, bofonchiò tra sé e sé disgustato.
Continuò a leggere Possibile fuoriuscita di sostanze verdastre ed ectoplasmatiche... produzione di schifosomi, scaracchioblasti e sarchioselci. Una formazione sub-ascellare di cozze è perfettamente normale e ben tollerata dall'organismo. Ah, poi ci sarebbe un piccolo problema, ma niente di importante, non te ne preoccupare.
-No- pensò l'uomo con le mani di gigante -ora lo voglio sapere- Ti dico che non è niente, davvero. Bazzecole. Quisquilie. Pinzellacchere. E comunque è importante ricordare che la potatura all'albero della mela cotogna è consigliabile a settembre.
L'uomo dalle mani di gigante aveva l'impressione che volessero tenere un segreto lontano da lui, così proseguì nella lettura No, dico sul serio. E poi è più importante menzionare che quest'anno, per i segni di terra sarà un periodo assai fortunato e... Strinse il bugiardino fortemente tra le dita robuste e saltò all'ultima riga Ok, come vuoi - e può, in qualche caso, avere decorso letale. Nel senso che muoio? il bugiardino grugnì.
L'uomo dalle mani di gigante sospirò, ingollò l'aspirina e sussurrò: E' un buon giorno per morire.
Cercasi demiurgo ( o titolo equipollente ) per ristrutturazione universo fatiscente.
Non si bada a spese.
Telefonare ore pasti.
Porto Otrop è un posto singolare, principalmente perché porta male, e secondariamente perché non esiste.
Io però ci passerei le vacanze.
"Ah!" e in quell'esclamazione risuona già tutto il mio tripudio.
Mi avvicino lentamente all'ammazzamosche annihilator king, ultimo modello, con scarica elettrica fulminante totale. Stermina mosche, cimici, tarme, scarrafoni e foche monache. Vuoi che non ce la faccia con quella inerme, perniciosa zanzaretta, mi domando retoricamente, pregustando l'esecuzione.
Mi sfugge un risolino sadico, e scrollo il capo un paio di volte guardando il cielo.
E' fin troppo facile.
Mi avvicino, alzo la mano lentamente, senza mai staccare gli occhi dalla preda, senza mai abbassare le palpebre, come fanno i veri cacciatori e gli psicopatici patentati (che poi, ci deve essere qualche attinenza tra le due categorie).
Ho i muscoli che fremono per la tensione, ma aspetto ancora. Voglio riempirmi gli occhi e la coscienza di quel momento. Do' una rapidissima scorta alle punture sulle gambe, saranno almeno cinque pizzichi porca eva, ed è lì che un freddo senso deterministico mi avviluppa. Vita e morte, i due estremi, stanno per compiere le loro danze davanti a me, ancora una volta. E non ero io, quello a morire.
E andiamo.
La mano scatta in avanti e un improvviso "ASPETTA!" mi fa deviare traiettoria e mancare la vittima.
Imprecando cerco l'origine del grido ma poiché a quell'ora ero solo a casa, e data la mia oramai consolidata esperienza a riguardo, senza tradire la benché minima eccitazione, poso lo sguardo sulla zanzara che, quasi me lo aspettassi, non si era mossa di là.
Le ali contro i cristalli della credenza, immobile, mi parla ancora, con vocina ronzante e strozzata"Io non vorrei distorglierla dai suoi compiti che, con decenza parlando, sono alquanto ammazzatorii. Però le vorrei far notare che davanti a lei non ci sta una zanzara."
Affatto convinto, stringo con più forza l'ammazzamosche che sembra fremere, pulsarmi in pugno per il sangue promessogli (il mio, nella fattispecie).
"E cosa saresti?" faccio io, vagamente annoiato.
"Ok, non volevo arrivare a tanto, ma non mi dà altra scelta." prende fiato e finalmente risponde. Mi fa "sono una zanzare cosmogonica"e, annuendo solennemente, "sono il centro dell'universo, compermesso. Se mi uccide, causerà la formazione d'un buco nero che ci risucchierà tutti quanti: continuum spazio-temporale, lei, me e ammazzamosche compreso. Capìsc?"
Rinunciando a tentare di comprendere per quale motivo capitano tutti a me gli animali psicotropi (o psicotici), di rimando ribatto senza esitare "e come faccio a sapere che non menti per salvarti?"
Le vibrisse le si rizzano di paura. Che l'abbia colta in fallo?
"Non posso provarlo. E il bello è che se mi ammazza, con licenza parlando, non lo saprà mai."
Prendo il mio tempo. Sono sicuro sia un escamotage da filmetto di seconda serata. Ma potrei sempre sbagliare.
"Cos'è che accade, se ti fulmino?"
"Creerebbe un buco nero che..."
"E se ti lascio vivere?" incalzo.
"Bè..." mi fa con più sicumera" compermesso, si va avanti io, lei e tutta la baracca come al solito."
"E come fai a sapere che sei proprio tu e non un'altra zanzara, il cardine cosmico? O qualcosa di meno prosaico, magari"
Si fece sannguigna come se l'avessi punta io, tanto per cambiare " Be', si da il caso che uno se lo sente, quando c'ha l'universo di dentro, con decenza parlando. Se non lo sente, è evidente che non ce l'ha."
"E come la mettiamo coi pizzichi? Se ti uccido, non ci sarano più zanzare a importunarmi, per sempre." dico filosoficamente, pensando di incastrarla con la retorica, e incrocio soddisfatto le braccia.
"Se è per questo, non ci sarebbe neppure più nessuno da importunare, compermesso." fa stizzita e decisa.
Touché.
"Dimmi il significato della vita, e ti lascio vivere."
Mi si appropinqua con incedere lento e titubante. Mi ronza tre parole nell'orecchio.
Sgrano gli occhi e, di scatto, apro la finestra; la vedo sparire dopo neppure un metro di volo.
Il racconto più meraviglioso del mondo Avviso ai Lettori
Così parlò
aWilito
alle
11:49
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racconti
Si avvisano i gentili lettori che i personaggi di questo racconto entrano ufficialmente in sciopero fino a data da destinarsi a causa delle reiterate, vessatorie condizioni di lavoro imposte dall'autore e che, per tali ragioni, il presente racconto, il quale avrebbe certamente destato l'interesse di tutti ed irretito i cuori di molti, sarà pubblicato in forma ridotta.
Ci scusiamo per il disagio arrecato.
C'era una volta un personaggio dal carattere peculiarissimo e dotato di personalità assai spiccata che riuscì in un'impresa ritenuta generalmente impossibile. Costui non solo sorprese le comparse, ma fu persino capace di compiere eccezionali gesta mai menzionate in nessun racconto di questo e altri generi. La storia termina con un finale mozzafiato e totalmente inaspettato cagionato da un espediente raffinatissimo di metaletteratura. Purtroppo, a causa dello sciopero, lo staff non è autorizzato a divulgare più informazioni di quante già riportate.
Firmato, i personaggi principali e comparse de "Il racconto più meraviglioso del mondo".
Aspro è gentile e premuroso, con Mavro.
Cucina per lui l'agnello con l'origano fresco. Coglie per lui le foglie migliori di vite e d'ortica.
Ogni mattina depone rose sontuose sul suo letto, ma prima le spina una ad una, affinché la loro bellezza non nuoccia alle sue mani.
Gli conta favole preziose che sanno di miele e farina. E fa' in modo che Mavro non soffra mai.
Neppure una volta quando una popolana, vista fra le braccia fedifraghe d'un certo giovinetto, stava per spezzargli il cuore. Allora Aspro, per mezzo del fuoco più infame, la costrinse con torture ignominiose a giurare fedeltà a Mavro, tacendo per sempre quanto accaduto. Ella ovviamente acconsentì alle richieste del carceriere, tanto che Mavro non ebbe mai a lamentarsi né della devozione, né dei suoi servigi.
Apparentemente l'uomo più felice tra tutti, Mavro conduce tuttavia vita vacua e snaturata.
Non desta meraviglia, perché Aspro è in verità sadico, mentre egli, Mavro, è un masochista.
"Si può sapere cos'ha? Via, tra pochissimo si va in scena. Mica vorrà mancare l'appuntamento di oggi, nevvero?"
Mi giro dall'altra parte e faccio per ignorarlo bellamente. Sento una tale livore per quell'uomo che lo vorrei morto, o a molestare qualche altra coscienza.
"Qualcuno qui ce l'ha con me..." canticchia divertito.
Gli scocco un'occhiata astiosa e risentita, poi mi volgo dall'altra parte, verso il palco. Oggi è diverso, mi pare ci siano delle luci provenire da laggiù.
"Via..." mi fa affabile e mellifluo con un sorriso sornione "cos'è, oggi non abbiamo voglia di lavorare?"
A quel punto sbotto, gli punto le pupille contro (che strano vedermi rispondere con le stesse pupille) e finalmente mi tolgo il rospo: "Ma quale lavorare? Lei è un fanfarone! Lei mi ha preso in giro per tutta la vita! Per anni ho creduto che il mondo delle pubblicazioni, dell'editoria che profuma di carta nuova fosse una irraggiungibile chimera e non per colpa mia! Per anni ho pensato che fosse virtualmente inaccessibile, che fosse un mondo inavvicinabile per le proprie intrinseche caratteristiche. E invece com'è la storia? Amici - persone le cui vite ho l'hobby di amare e tenere in gran conto - hanno già fatto tutto quello che lei mi prometteva! E mi creda. Mi creda, fa male sentire le confessioni di debolezza di chi c'è riuscito e scoprire con amarezza che sono le nostre stesse. Il finale sarà all'altezza? La storia regge? In realtà sono uno scribacchino. Questi sono i timori altrui, e sono anche i miei. Con l'unica differenza che chiunque altro ha vinto la gara, io invece no."
Mi viene un po' da piangere, così distolgo lo sguardo. Non voglio che mi veda pure colle lacrime, quel bastardo, millantatore d'un giuda.
Mi sorprende. Per la prima volta quella faccia col sorriso imbalsamato si spezza e lascia colare un po' di inaspettata costernazione. Ruota gli occhi, come per controllare che non ci sia nessuno nei paraggi e mi fa, la sua voce ridotta a un sibilo "mica sarà invidioso?"
"Idiota!" gli urlo irato "ma ha una vaga idea del significato che do alla parola amico? Evidentemente no. Io auguro ogni bene possibile a ognuno di loro. E sono assolutamente ed incondizionatamente felice per ogni loro traguardo." non è quello, in effetti... "Non è quello. E' che poi... quando torno a casa..."
Conclude lui per me "che poi, quando torna a casa la sera, lei soffre perché crede che un po' di quella vita le spettava di diritto e invece..."
Annuisco flebilmente e contro voglia. "E invece sono ventisette anni che mi promette ori e allori e cosa abbiamo ottenuto? Questo teatro vuoto ed infinito, in cui nessuno però mette mai piede. Bella consolazione."
Al presentatore tv brillano di nuovo gli occhi "oh" mi dice "ma questo non è affatto vero. Prego, mi segua", e indica il palcoscenico.
Che strano, oggi ha un'aria quasi familiare, raccolta, come fosse un po' di più, e sul serio, mio.
Ci sono piccole lanterne di carta che rischiarano l'atmosfera con bei colori pastello, e dei vasi in cui esitanti piantine offrono al mondo germogli simili a rubini. C'i sono un tavolo e una sedia di legnaccio non rifinito, in fondo, che risultano tuttavia gradevoli per via della verniciatura in bianco e azzurro. E dietro di essi una tenda, candida e leggera, ondeggia vezzosa solleticata da un vento di cui ignoro le cause.
"E guardi là" con un ampio gesto della mano mi presenta l'imponente, infinita schiera di poltrone che finalmente posso vedere compiutamente. Sono vacue in modo desolante, e tuttavia godono d'un certo fascino: la bellezza della potenza. Inoltre producono un contrasto curioso per cui, prima di tuffarsi nell'oscurità lontana, creano forme d'onda e geometrie che rimandano alle valve di alcune conchiglie. Sembra promettere bene, ma per me è sempre troppo poco.
"Guardi meglio" mi imbecca ancora cogli occhi sgranati, da pazzo. E noto per la prima volta che su una poltrona in prima fila giace una rivista abbandonata, forse svedese. E per terra delle cartacce di pubblicità, appunti scritti a penna. E qualcuno ha anche sgranocchiato qualcosa e lasciato briciole giallastre un poco più in là.
Accennai un sorriso insicuro e scorsi il presentatore tv scrutarmi con le braccia congiunte, gli occhi ancora spalancati, e quel caratteristico sorriso ebete nuovamente stampigliato addosso.
Ma non me ne curai.
Dal Sacro Zeugma dell'illibata peripatetica virtù divina
Così parlò aWilito alle 11:37 Tags brevi ma intensi, delirio, raccontiNoi non siamo.
Ti parliamo eppure noi non siamo. Noi non siamo nel senso che l' essere, come il non essere, non ci riguarda. Vogliamo dire che le parole essere ed esistenza non hanno effetti su di Noi. Noi non siamo.
Neppure l'Universo esiste armonicamente al vostro limitato e limitante concetto.
Ripetiamo, l'esistenza non è presupposto di esso; e neanche di Noi.
Noi non possiamo dire di essere. Noi siamo causa ed effetto di Noi, sebbene non siamo. Noi dovevamo esistere. D'altronde Noi presuppone Noi stessi, come è ovvio.
Noi non siamo, e non siamo da sempre.
Ciò è perché gli eventi del futuro e quelli del passato sono fatti assolutamente della stessa sostanza. Ciò che li rende diversi è una proprietà che non gli appartiene: siete voi stessi. Ai vostri occhi, semplicemente, i primi sono possibili, gli altri necessari. E' solo una stortura della vostra concezione.
Che è imperfetta.
No, non siamo perfetti. La perfezione è un irraggiungibile concetto umano. La perfezione implica l'imperfezione. Noi non siamo perfetti; neppure imperfetti.
Noi non siamo.
Somiglia sempre ad un amica, o al papà, o al professore. A volte ne prende solo la voce, più spesso le intere fattezze. Si riconosce perché resta ebete di fronte alle affermazioni, lo sguardo vacuo, i pensieri che lottano nelle tempeste della ragione, in attesa d'una bonaccia o d'una secca risposta cui aggrapparsi. L'Uomo di Tufo ha alcuni elementi caratteristici.
Adora impersonare qualcuno precisamente nel momento in cui a questo qualcuno è demandata un'attività fondamentale, risolutiva, necessaria. La richiesta d'informazioni contingenti, ad esempio:
Devo girare a destra o a sinistra?
Presto, come si chiama quel tale che m'ha appena salutato e che mi viene incontro?
Diciassette verticale: La via più lontana.
E così, l'attesa d'una replica che si aspettava rapida e furtiva langue. Si fa a tempo a renderci conto che l'uomo di tufo è già entrato in azione dall'espressione beata e assente dell'altro che, in genere, non ha capito la nostra domanda, non ha sentito la domanda, non si ricorda niente altro che non riguardi la semina e concimazione delle rape rosse. Poi non serve più. Si finisce per perdersi in città, si intorbidiscono le relazioni sociali e i cruciverba giacciono per sempre risolti a metà, come sfingi che serbano tutte le risposte del mondo ma non le dicono. Risposte:
Non era né a destra né a sinistra; bisognava procedere dritti.
Il tizio non ce l'aveva con noi, ma con la procace signorina dietro di noi.
La via Lattea.
L'uomo di tufo, inoltre, adora confondere le persone soprattutto quando a queste vengono formulate richieste semplicissime.
Moglie dopo vent'anni di matrimonio: domani festeggiamo? Marito impallidito e muto (anniversario? Compleanno? Pasqua?). Inutile resistere, l'Uomo di Tufo ha già lasciato la sua scia di danni, di litigi, di lavate di capo. Non ha forma propria, ecco perché necessita di prendere l'altrui: è il suo modo d'esistere.
Forse, però, è ancora più interessante studiare i suoi comportamenti nella letteratura. Si noti che l'Uomo di Tufo prende di mira solo i più illustri scrittori e le loro opere più fulgide; si inserisce generalmente alla fine del racconto per scombussolare i piani dell'autore. Così che pezzi altrimenti pregevolissimi di - quello di prima, là - diventano delle - boh - senza capo né capo. E quindi, se davvero è necessario (ma lo è davvero poi?) si porta, nostro malgrado, ahinoi, ergo, che cosa stavo dicendo? Ah si, che si rischia che non è possibile avere perché si però il finale, non mi ricordo più come finiva.
- Visto che bello il cielo,stasera? Vivido e fitto di stelle. E guarda le nuvole. Sembra che un gatto abbia rovesciato la farina e ci abbia zampettato sopra.
- Che palle. Avevo appena finito di pulire.
Ca-risimi. E' con profon-da emozione che sen-to il dovere di esprimere - - tutta la mia disponibilità verso la fami-lia del defunto. Un uomo che abbandona la vita, si, ma che anche si abban-dona alla volon-tà di Dio e al suo ineludibile mis-te-ero.
[La vecchietta in prima fila, sulla panca più nuova.]
"Cristo, pietà, Signore Pietà. Cristo Pietà, Signore Pietà. E' dalle sei, che sono qua. Basteranno tutti 'sti Cristo e Signore Pietà? A proposito, basteranno un kilo di zucchine? Quello, Mario, se ne mangia mezzo chilo da solo. Poi non ne avanzano per la moglie. Vabbè che tanto se non mangia mica le fa male, quella vacca. Cristo pietà, Signore Pietà."
La sem-plicità di quest'uomo, la sua spontaneità-a, la sua presen-za pe-er tutto queli che chiedevano il suo aiuto...
[L'uomo dietro la vecchia. Un bel vestito nero, tinta unita, con una cravatta dalla fantasia molto ricercata, eppure gradevole.]
"Semplicità?Semmai stupidità. Ma era pur sempre un buon uomo. Se non si fosse fatto fregare così... E glielo dicevo di stare attento, una donna quando ti prende, vuole tutto. Eh, il Signore dà, il signore toglie."
Siamo quindi qui riuni-ti per esprimere il dolore per la sua scomp-ar-sa, il cordo-olio, per una fine che è semp-re un giorno troppo pre-sto, di un'ora troppo vici-na, e sempre, se-empre immeritat-ta.
[La vedova. Porta un velo sulla testa che le nasconde in parte i tratti gentili sconvolti da notti insonni e pianto.] "Si, si, proprio il cordoglio. Secondo me aveva debiti con metà di quelli che stanno qua oggi, se no non si spiega. Tutti sti amici non ce li aveva neanche se moltiplico per otto quel gruppetto di faccendieri che frequentava. Ed io come una stronza, a stargli dietro una vita, a servirlo e riverirlo. E chissà chi è quella battona da asporto là dietro. Una delle sue amanti di sicuro. Aveva ragione mia madre: quello è fasullo."
[Onofrio, uno vecchio amico. Inviso alla moglie perché divorziato, puttaniere, forte coi deboli e viceversa, viscido, infido e fanfarone.] "Chissà chi è quella tipetta laggiù. Trucco aggressivo, abbigliamento famelico, bisognosa d'amore e pronto uso. Tanto la Gina la vedo stasera: secondo me se mi fiondo, quella ci sta già nel pomeriggio. Sono troppo maschio latino ruspante, non resiste, ci casca. Haivoglia se ci sta. Si si, ci sta. Ci sta."
Dona loro et-terno ripos-sso, o Signo-ore. Il giusto sarà sem-pre ricordato, non temerà annun-zio di sven-tura. Assol-vi, Signore...
[Un tizio attempato, un ciuffo di capelli lunghi, radi e unticci che gli cirncumnavigano la testa. Le sue mani, due piccole coppe, si sfregano nervosamente nel tentativo di scaldarsi. Il cappotto è visibilmente macchiato in un paio di punti.]
"E ora? Chi me li ridà i soldi che mi doveva? Non posso andare dalla moglie a chiederli. Certo che è proprio bella. Come si fa a morire quando uno ha una moglie così bella? E se non fosse troppo tardi, dopo tutti questi anni? Domani le porto dei fiori. Magari però le chiedo pure i soldi."
Le mie preghie-ere non sono degne, ma tu, buono, fa benignamen-te, che io non bruci nel fuoco e-tterno. Dammi un posto tra gli a-gnèli...
[Una signora di mezza età siede infondo alla navata, nella penombra, sulla panca più vecchia e tarlata. Tiene le mani giunte e cerca di evitare le occhiatacce che molti, quella mattina, sembrano scoccarle. Si sarebbe detta bella, se non fosse stato per trucco troppo appariscente che le abbrutiva i lineamenti delicati.]
Sei stato generoso e non hai fatto mai mancare nulla a me, né a mio figlio. Lasciavi credere alla gente che fossimo amanti, che quello era tuo figlio. Non hai mai preteso nulla in cambio. Neppure quella volta , ancora me ne vergogno, che mi sono offerta. La mia più grande tristezza è il non poter urlare al mondo quanto sei stato buono. Dopotutto, nessuno ci crederebbe, e poi, oramai non serve più.
...e s-plenda ad essi la luce per-pe-ttua.
[tutti in coro] AMEN
Il sighnòmimeitalo è la lingua più affascinante del mondo. E probabilmente dell'intero universo.
Ma è anche la più complessa. Principalmente per la sua perversa grammatica, la sintassi iperbolica, la ricchissima morfologia e la prosodia inconcepibile per chiunque non sia un sighnòmimeitalo.
L'unico tentativo di studio universalmente riconosciuto - peraltro l'unico noto - è condotto dai sighnòmimeitali stessi e la sua traduzione in inglese, ammesso che sia tecnicamente fattibile, è ancora in corso d'opera. Per di più, a causa della sua impareggiabile (ed impareggiata) complessità, e per via delle mutazioni cui qualsiasi lingua è sopposta nel tempo, il lavoro dei linguisti si protrae da secoli e per convenzione non terminerà che con l'estinzione dei sighnòmeitali: quando, cioè, la loro diverrebbe una lingua morta.
Per queste ragioni appare evidente l'impossibilità di ottenere una traduzione aggiornata e dunque di azzardare ipotesi su una lingua la cui storia, regolamentazione e contemporaneità risultano semplicemente inaccessibili a chiunque altro. Infatti, tentativi di grammatica descrittiva sincronica, cioè che si limitano a fotografare una lingua in un dato momento storico, sono virtualmente irragionevoli e quindi abbandonati da tempo.
Fatta dunque chiara l'impossibilità della sua comprensione, lungi da ogni velleità conoscitiva, ed evitando accuratamente di andare nel soverchio e nel diffuso, ci si limiterà a riportare alcuni elementi caratteristici e, parrebbe, statici di questa meravigliosa lingua.
La grammatica normativa sighnòmimeitala riconosce duecentotré elementi del discorso, divisei in articoli, prearticoli, postarticoli, nomi, pronomi, anomi, volontà, aggettivi, aggettivazioni, verbi e nolontà. Da notare che non esistono parti invariabili del discorso, perché sono sempre tutte variabili.
Senza entrare nel dettaglio, e a titolo puramente esemplificativo, si prenda la categoria dei verbi, la meno complicata e, forse, la più vicina al nostro modus operandi.
Al di là delle trecentoventun coniugazioni fisse (dati aggiornati al 1896. Cfr. tabella p. 5012), un verbo subisce delle modificazioni a seconda del momento in cui è detto, dello stato in cui si trovano e dell'esperienza dei parlanti, più altre condizioni che qui si ometteranno per chiarezza. Esiste così una sorta di imprevedibilità dovuta a declinazioni (i verbi vengono anche declinati), coniugazioni, suffissazioni e prefissazioni operati dal parlante al momento della fonazione che spesso sono uniche in tutta la sua vita. Si parla, in questi casi, di declicanazioni volitive.
E' molto importante ribadire questo concetto, magari con l'ausilio di un altro esempio.
All'interno della categoria dei nomi esiste, tra le tante, una sottocategoria dei nomi di cose piuttosto piatte, delicate e lavabili. Vi si trova anche la categoria delle cose lunghe e sottili, degli animali (ma a uccelli, ornitorinchi e oloturie ne vengono dedicate delle apposite) e delle persone (a loro volta divise in persone superiori, pari e inferiori al parlante). Per una scorta alle altre seicentouno categorie del nome sarà utile cosultare le tabelle riassuntive pp. 5996-6405.
Una scodella (piuttosto piatta, altrimenti rientrerebbe nella categoria delle cose tondeggianti e destinate a uso cucina!) è facilmente declinabile e coniugabile (in sighnòmimeitalo anche i nomi vengono coniugati in concordanza a tutte le altri parti del discorso). Ma cosa accade quando ci troviamo di fronte, esempio da manuale, ad un topo morto, spelacchiato e puzzolente? Rientra nella categoria degli oggetti inanimati? O più verosimilmente in quella della spazzatura? Il pelo rado e l'odore sgradevole, infatti, hanno un peso maggiore nella valutazione. Ma molto dipende dallo stato d'animo del parlante. E così, se il roditore fosse un criceto, l'affetto verso la creatura potrebbe spingere il parlante a collocarlo, e a ragione, nella categoria dei nomi di defunti, e a coniugarlo secondo lo schema volitivo dei verbi di tristezza.
Ciò non deve spaventare perché questa lingua sembra difficile. Lo è oggettivamente.
Forse è utile, a questo punto dello studio introduttivo sul sighnòmimeitalo, comprendere come costoro si riferiscono a se stessi. Sighnòmimeitalo in sighnòmimeitalo vuol dire "puoi dire veramente di comprendermi?".
Mai nome risultò più azzeccato, si potrebbe dire.
Stamattina ho dovuto svegliarmi presto.
L'insalata di polpo (polpo infingardo e vendicativo anche da morto) della sera prima non mi ha dato pace per tutta la notte. Il mio stomaco rantolava, borbogliava, biascicava e ponderava incessantamente, schiacciato dal peso specifico del pasto e affranto nel tentativo di portare a compimento la soverchia fatica della digestione. Così stamattina, di buon'ora, ho dovuto cedere e darla vinta al polpo che tornò, più o meno tutto, là donde era venuto.
Distrutto dalla notte insonne e vagamente turbato, forse proprio a causa di quanto accaduto, decisi di fare una passeggiata sulla spiaggia, all'ora in cui il sole è appena sorto e la sua luce grigia sembra impastarsi con la salsedine addosso.
Non troppo tempo dopo, assorto come sempre in pensieri grandi, avvertii la spiacevole sensazione di pestare qualcosa di piccolo, tubulare e umidiccio. Ma non fu quello a sorprendermi, quanto piuttosto il piccolo gemito di dolore che ne seguì.
"Ahi."
D'istinto guardai sotto la suola della scarpa.
"Non lì. Sono qui."
Individuai subito la fonte di quelle parole. Era una disgustosa creatura marina che mi parlava, grossa come una salsiccia, color marrone scuro, lievemente ispida per via di tanti minuscoli cornetti sulla pelle spessa e viscida. Dovette notare il mio istintivo moto di repulsione perché mi disse "tu a noi ci fai lo stesso schifo, ma mica ti pestiamo".
Rimasi molto colpito dalla saggezza profonda di queste parole.
Cercai di ricompormi e dopo un paio di false partenze, dissi "mi spiace di averti schiacciato. Spero di non averti fatto male"; "a proposito" cercando di suonare il più disinvolto possibile "cosa sei?"
"Una oloturia."
Cadde il silenzio. Evidentemente l'altra doveva ritenerla una risposta sufficiente. Attesi un po' e continuai "e cos'è un'oloturia?"
Ancora silenzio. Mi sentivo scrutato da minuscoli occhi con sussiegosa pazienza e degnazione. Era indubbiamente una domanda sciocca, la mia. Tuttavia l'oloturia mi spiegò "Sono un echinoderma, dotato di un esoscheltro costituito di piccole placche articolate dette spicole." sentii ancora lo sguardo fermarsi su di me perché continuò "spicole, non spigole. Con la 'c'. Ho i polmoni vicino l'ano e ho un pesce parassita nell'intestino. Capisci bene che ho i miei motivi per essere irritabile la maggior parte del tempo. Tralaltro il mio parassita personale si chiama Eustachio ed è un vero seccatore."
Al mio evidente e tacito sbigottimento la creatura sentì la necessità di bofonchiare, stavolta vagamente infastidita "ci chiamano anche cetrioli di mare", e questo, ritengo, fu tutto quanto aveva da dire a riguardo. Quanto meno avevo finalmente capito con cosa avessi parlato fino a quel momento.
"Ah" constatai, e fu tutto ciò che seppi dire.
Passò ancora del tempo in cui mi sentivo in nervosa soggezione, poi provai ancora "E cosa mangi?", dissi incautamente con tono conversazionale.
"Melma e fanghiglia marina."
"E cosa fai nella vita, di bello?" domandai.
"Mangio."
Mi finsi interessato ma mi guardai intorno nella speranza di avvistare un passante o qualunque cosa potesse fornirmi una scusa per congedarmi. Tentennai un po' e senza pensare dissi: "Deve essere piuttosto scomodo vivere con un inquilino nello stomaco. Per giunta fastidioso!" e feci seguire una risatina affatto convincente.
"Intestino."
"Come?"
"Eustachio sta nell'intestino, non nello stomaco. E comunque non vorresti essere nei panni suoi."
Esitai. "E perché?"
"Ha l'ano sotto la bocca."
"Ah."
"E non ti ho detto da dove è che entra ed esce."
"No!" urlai. "Volevo dire... va bene così", e alla fine la domanda eruppe dalla mia bocca, incontrollabile, impossibile da trattenere. "Sei...Sei felice, di fare questa vita?" e attesi l'ondata di ingiurie e insulti che credevo ineluttabili, dopo una così totale mancanza di tatto.
Invece, seguì ancora quel teso silenzio in cui io, come esposto a raggi x, facevo la figura del babbeo davanti ad un'oloturia.
Disse solennemente "Tu saresti felice?".
E con minuscoli passi si girò e strisciò verso il mare aperto.
E' tutto il giorno che sono turbato. Non sopporto di passare per ignorante.
Menchemeno a colloquio con un cetriolo di mare.
Ora, ciò che nessuno mai ti dirà è proprio la verità.
Hanno scritto tomi e predicato pervicacemente, sovente con l'ausilio della violenza, d'un certo dio misericordioso o piuttosto d'un dio vendicativo. Alcuni si sono spinti a fare, di tali precetti, leggi dello stato. Altri si curano d'una infinità di dei, che adorano a seconda delle necessità. Altri ancora negano l'esistenza d'un entità accentratrice, dell' unico punto su cui un universo intero deve passare. E' condizione che muta al mutare delle coscienze, dei tempi, delle necessità.
Le verità sono tante quante le bocche che le profferiscono, le bugie tante quante gli occhi: questa è la verità.
Ma non voglio parlare pesante, né ho volontà di convincerti. Lo puoi capire?
Devi giurare però che ascolterai ogni mia parola, giurare che terrai in gran conto ed in più grande segreto i miei consigli e giura, giura, per dio, giura, che serberai il terrore che il mio cuore vomita tra strazi inverecondi; perché io ho visto coi miei occhi, l'orrore di Akrèa, le Prigioni della Coscienza.
Poi seguirai il tuo consiglio, come il tuo dio ha deciso per te.
E' una città vaga, indefinita, senza leggi, immota e innocua. Hanno creato meccaniche perverse, ingranaggi di demoni e catene invisibili, ma inamovibili.
Credimi, non serve il ferro, per ammansire l'anima.
Ti pongono nel mezzo. Nel mezzo di tutto, lontano dagli altri prigionieri, che non vedrai mai, né sentirai. E ci sono statue che sembrano persone e riflessi di bellissime cose degne d'essere desiderate, ma le statue dentro sono vuote, e le cose svaniscono al primo tocco. Sono lì affinché tu le agogni oltre ogni altra, perché diventino la tua ossessione.
E lo diventeranno, credimi.
Il lastricato è costruito in modo che dovunque tu ti muova, in qualunque direzione tu volga il passo, davanti o persino all'indietro, quello t'asseconderà e precederà. Ad Akrèa puoi correre per sempre e non raggiungere mai un luogo che è solo a un braccio da te. E' la prigione che scivola sotto di te, non sei tu a muoverti.
Drogano le menti, le tengono segregate all'aperto e non c'è modo di affrancarsi, perché solo chi esce dalla prigione, può vederla, ma soltanto chi la vede può uscirne. Lo puoi capire?
Akrèa è una promessa eternamente fallace, un inganno perpetuo, una finzione malsana.
Ed io.
Io ho semplicemente chiuso gli occhi.
Questo non è un blog.
L'altra sera passeggiavo sul lungo mare, iroso e meditabondo sulle varianti nella ricetta del moussàkas, che troppi ristoratori senza scrupoli edulcorano depennando la cannella dalla lista degli ingredienti.
Immerso in pensieri tanto grandi là, proprio sulla scura battigia ghiaiosa, rinvenni un simpatico polpone che il mio atavico istinto di cacciatore mi suggerì pesare per lo meno sette etti. Incuriosito da tale scoperta, mi avvicinai all'animale e scoprii che non era affatto simpatico. Anzi, diceva le parolacce e petava rumorosamente. Ad ogni flatulenza, peraltro, i tentacoli sventolavano come bandiere al vento, e a quelle più grosse si arricciavano addirittura.
Con estrema cautela mi provai a parlargli col tono più dolce di cui ero capace.
"Piccolo polpetto, cos'hai che non va? Mal di pancia? Aerofagia?"
Il piccoletto alzò degli occhioni enormi e languidi, umidi di lacrime, e mi studiò per qualche secondo, il mio volto aperto in un sorriso rassicurante.
All'improvviso mi riempì di improperi come neppure il mio vicino di casa ha mai sentito. E sì che ha fatto il minatore in Turchia, prima di diventare scaricatore di porto a Civitavecchia.
"Ma quale aerofagia e aerofagia?" mi investì "Non lo vedi che sto piangendo? Il solito qualunquismo di voi asciutti. Arroganti che vi credete che il mondo gira solo dove c'è aria. Bè, sappiate che il globo lo chiamano terracqueo apposta! Se no lo chiamavano terrareo, lo chiamavano." E giù un altro paio di bestemmie e arricciamenti tentacolari.
Costernato, provai a spiegare "E' che sentivo dei rumori e credevo..."
"Ma cosa credevi?" e scivolò verso di me minaccioso, tanto che per la sorpresa arretrai d'un paio di passi. "Il fatto che non piango come voi asciutti, non vuol dire che noi decàpodi non abbiamo sentimenti! Ecché!".
Attesi qualche momento, indeciso sul dafarsi. Da una parte sentivo la voglia di andarmene, ma dall'altra desideravo saperne di più.
"Decapode, dici? Credevo i polpi avessero otto tentacoli. Come ti chiami?".
"Qualunquista e pure disinformato." poi d'improvviso il rimprovero divenne lamentoso ricordo "Mi chiamo Toldo" sbruffò "ma d'altro canto come biasimarti? Non è certo colpa tua. Dopotutto come puoi sapere che esiste una razza di polpi a dieci braccia, visto che tutta la razza sono praticamente io?"
"Mi spiace molto di sentirtelo dire. Ma come mai sei rimasto solo tu?"
"Perché la nostra carne è la più tenera tra tutti i cefalopodi, profuma di brezza marina, sguazza nel guazzetto, abbraccia la gavetta, seduce i carboni ardenti, sposa le patate pregiate di Montese e tradisce talvolta con le cipolle rosse di Tropea. Ecco perché." disse con un tono disgustato e afflitto.
"La nostra unica colpa, l'unico motivo per cui ci siamo estinti è che voi asciutti mangiate troppo e troppo spesso” e guardò vagamente sussiegoso il mio girovita.
Fingendo di non aver visto e lanciando gli occhi al cielo, tentai tuttavia di consolare il poveretto. In effetti, immaginai che essere gli ultimi della propria specie può rendere irritabile chiunque.
"Posso fare qualcosa per te? Vuoi venire a casa mia per un po'?" gli dissi con un moto di improvvisa pietà che sorprese anche me.
"Certo, è giusto ora di cena, cosa c'è di meglio d'una bella insalata di mare, con questo caldo?" insinuò velenoso. E in effetti non è che avesse torto, ma non erano quelli i miei intenti; per dimostrarlo proposi radioso "Cosa mangiano i decapodi? Una cozza, magari? Una foglia di lattuga?"
"Guarda che mi sto estinguendo anche senza che ti ci metti pure tu a farmi morire di fame", rimbrottò sarcastico "e comunque, non pretendo mica la luna. Due spaghetti aglio e olio, una fettina panata e un'insalatina andranno benissimo."
"Aglio e olio?" ripetei con la mandibola cadente per l'incredulità.
"Si, ma poco piccanti, se no non li digerisco. Andiamo, va." due peti, due strizzatine di tentacoli e si incamminò accompagnato dal mio sguardo costernato.
Arrivati a casa gli organizzai una piscina d'emergenza nel lavello della cucina. Così, oltretutto, poteva farmi compagnia mentre spignattavo."Attento alla mensola sopra la cucina, balla un po'", gli dissi.
"Ma questa stamberga, ti pagano un tot al mese, per viverci dentro o era l'ultima casa disponibile sulla terra?"
"Guarda che se non lo sbucci, poi l'aglio non si sente."
"Si sta bruciando l'aglio: ti pare il momento di stare al telefono? Tutti uguali, voi asciutti".
Intanto che mi rampognava allegramente, pretendeva di controllare quello che facevo. Non ero un gran cuoco, secondo Toldo. A dire suo nessun asciutto è un gran cuoco. Ma sospetto che le sue convinzioni nascessero dal fatto che molti suoi parenti siano finiti sui loro deschi. Intanto si era arrampicato con un tentacolo sulla mensola per controllare il fondo della padella. "Questa padella te l'ha lasciata in eredità il cuoco di Napoleone? Pensiero carino, ma prima poteva pulirla".
"Non salire sulla mensola! E' rotta!" lo redarguii mentre tornavo dal telefono. Ci mancava pure che cadesse e si facesse male. Cosa c'è di più insopportabile d'un polpo nevrotico e a rischio estinzione davvero non lo potevo immaginare.
"Ma le fettine le impani nella segatura?"
"Cos'è, quello, olio o grasso di foca? Senti che puzza. Da un asciutto come te non mi meraviglierebbe sentire che scuoia trichechi per farne olio da frittura"
"Dopo mi passi il sapone? Non per i piatti, ma per lavarmi di dosso la puzza di questo lavandino. Cos'è, ci conservi il letame dei trichechi che scuoi, qua dentro?"
Mentre correvo da una parte all'altra della cucina nel tentativo di non scontentare il mio ospite , fu allora che accadde la tragedia.
Lo sentii dire "Qui bolle da cinque minuti, che facciamo, porti gli asciugamani e via di suffumig..." seguì uno schianto metallico e poi più niente.
Alzai gli occhi e vidi la mensola penzoloni, appesa per un lato, che ancora oscillava. Mi avvicinati col cuore in tumulto e urlai "Toldo, no!". La mensola aveva infine ceduto e Toldo era finito, povera bestiola, diritto diritto nella pentola dell'acqua salata per gli spaghetti.
Attesi qualche minuto in religioso e compassato silenzio, adagiai Toldo, ancora bollente, nella terrina e feci la veglia tritando aglio e prezzemolo. Poi, lo benedii con prezioso olio di frantoio e onorai una bella cerimonia.
Come in ogni funerale che si rispetti (unica differenza: non era la solita frase fatta di rito), conclusi sentitamente che sì, Toldo era veramente un polpo buono.
Isshìn quella notte ebbe il più terribile degli incubi.
Al Jahar, il diavolo della pazzia, che è anche il padre dell'intuizione, gli apparve in sogno e gli parlò.
Avvolto nelle spire di fumi multicolore, egli stesso apparentemente fatto della stessa sostanza, gli colò nel cuore come fa un fiotto d'acqua che precipita, o un serpente infido e affascinante.
Isshin fu colto da un terrore improvviso e lucido, perché ben sapeva quanto gli sarebbe costata quella apparizione, così tentò, disperato, gli occhi sgranati, di fuggire.
Corse infinite leghe di terre e nuotò per altrettante miglia di mare, ma mai potè seminare Al Jahar che, imperturbabile nel volto e nell'intenzione, lo seguiva insistente come una seconda, perniciosa ombra; Alla fine, meravigliato e nolente, dovette fermarsi e assecondare il diavolo.
Indietreggiando lentamente, gli urlò contro "Ti prego, non farmi male! Non ho più né moglie né figli. La morte li ha presi, e sono solo. Non mi resta più niente!".
Al Jahar, indecifrabile, scrutò l'uomo attraverso le lingue di fumo che gli guizzavano tutt'intorno.
Disperato Isshin disse ancora " Non posso fuggirti, dimmi almeno cosa pretendi da me!" e tacque, sentendo la rassegnazione risalirgli l'animo.
Finalmente l'altro parlò "Non puoi fuggirmi" ripetè semplicemente, con tono piatto eppure tanto inaspettatamente seducente.
"Ho percorso tutti i mari e tutte le terre che ho potuto trovare, eppure tu ci sei, qui e ora. Perché?" la voce gli si faceva più ferma, il respiro meno affannoso.
"Ciò accade perché hai raggiunto i confini del Mondo".
"Ma oltre queste terre seguono altre terre e dietro quelle montagne, altre montagne", indicò con l'indice, che ora non tremava più di paura, la corona di montagne insanguinate dal sole calante.
"E' perché i confini non sono in queste terre e in questi mari, ma dentro di te".
L'uomo, con voce affatto esitante e sguardo pungente incalzò:
"Io credo che se Allah (gloria a lui, l'Altissimo!) ti ha mandato a me, avrà i suoi motivi. Lo accetto come quando appresi della morte di mia moglie e dei miei figli".
La voce restò ferma ma un serpente di dolore e rimorso gli si annodò nel ventre. Si domandò se Al Jahar non sapesse leggere nella mente, ma era impossibile stabilirlo: i fumi vorticosi rendevano necessaria l'astensione da qualsiasi, improprio giudizio. Anzi, trovava tutto quel movimento piuttosto fastidioso.
Parlò ancora Al Jahar " Io non sono stato inviato da Allah. Vengo per altre ragioni."
"Insinui forse che esisti al di fuori dell'infinita e onnipotente grazia di Allah (sia imperitura la Sua gloria)? Che decidi al di fuori del Suo consiglio?" fece incredulo.
Il diavolo divenne un'unica spira di fumo che si riversò alla sinistra dell'uomo, con la consistenza e l'eleganza del te versato. Lì, una volta riformatosi, disse "Se Allah è onnipotente come dici, come può qualcosa esistere senza l'esplicito suo consenso?".
L'uomo prese fiato per parlare ma rimase visibilmente interdetto. Il vorticare del fumo inoltre lo disturbava vagamente e gli instillava un ipnotico torpore.
"Eppure", riprese il diavolo seguendo evidentemente i fili del suo piano, "la spiegazione della mia venuta è possibile. Tutto è possibile spiegare, anche le verità del Mondo e le storie degli uomini. Il volere stesso di Allah è un progetto che è possibile dirimere".
L'uomo aveva gli occhi ridotti a fessure per la diffidenza e, forse, per la stanchezza. Poi il diavolo aggiunse "Anche la morte di tua moglie e dei tuoi figli rientra in tali progetti".
L'espressione di Isshin si congelò. All'interno del suo cuore era in atto una lotta titanica, quella del libero arbitrio. Poteva sul serio quel diavolo spiegare tutto, anche la Morte? Rivide i volti tanto amati e tanto sofferenti strappati all'esistenza, ebbe quasi l'impressione di stringerne ancora le mani, ma svanirono come il fumo che ghermiva Al Jahar. Davanti se stesso non poteva nascondere il fatto che più volte aveva pensato al suicidio, in seguito a quegli eventi.
La bottega, la sua bottega di tappeti, un tempo la più invidiata del Bazar, era oramai sfornita da tempo. Pochi cenci e mal fatti, poco più che stracci.
Ecco cos'era diventato: uno straccivendolo, un miserabile. E anche uno che non aveva niente da perdere, nemmeno la coscienza.
Disse "Cosa vuoi che faccia?"
"L'ultimo tappeto" fu la risposta.
Drogato dai fumi l'uomo vacillò per un attimo, per poi riprendersi, scrollarsi la testa e scrutare ancora quegli occhi imponderabili e potenti, unici punti fermi nel volto mutevole di Al Jahar.
"Che trama vuoi che abbia?"
Gli sembrò che i fiotti di fumo si fossero mossi più disordinati: era la sorpresa? Oppure l'eccitazione?
"La trama del Mondo intero. Tutto, vi riporterai. Passione e morte, genìa e finzione, desiderio e dimenticanza. Sopra ci saranno tutte le parole del mondo e tutte quelle che gli uomini non hanno mai proferito, né diranno mai, in tutte le possibile varianti. Vi riporterai tutte le azioni e tutte le infinite omissioni degli uomini. Intesserai ciò che è dovuto a ciò che è potuto, che poi è la stessa cosa."
"Non temi che chiunque possa abusare delle inestimabili nozioni che ne trarrà? E cosa ne sarà di me? Diverrò pazzo, vero?" fece Isshin tranquillo, lievemente biascicante, come sotto l'effetto del vino d'Alicarnasso, il più traditore.
"Isshin", la voce del diavolo, prima piuttosto atona, ora sembrava d'improvviso colorata, meno artificiale. "L'intero mondo non è che una costruzione di menzogne. La vita stessa degli uomini, le loro regole, le gerarchie cesserebbero d'esistere nell'esatto istante in cui tutti perseguissero la verità. Gran parte di ciò che vedi e ami, e quasi tutto quello in cui credi, è un'illusione che sembra solida solo perché le bugie si sedimentano come rocce millenarie, strato su strato, finzione dopo finzione. E tali rocce gigantesche, erette a monumenti dell'umana coscienza, sono tanto imponenti quanto fragili; prova ne sia che spesso aghi sottilissimi di verità producono in esse fratture e detriti e terremoti mille e mille volte più terribili delle bugie che le hanno generate."
La voce di Al Jahar tornò piatta e assente, vagamente noncurante "Ecco cosa sarà per la gente quel tappeto: un nuovo, menzognero mito. E dopotutto un portolano non è che una pergamena, fintanto che non vi sia alcuno in grado di seguirne le indicazioni."
Il diavolo incalzò "Lo farai, Isshin?".
La testa gli girava forte, le orecchie gli fischiavano e avvertiva solo il desiderio di gettarsi a terra, nella vana speranza che ciò bastasse a placare il vortice che ora si era impossessato anche di lui.
Avrebbe fatto qualunque cosa perché quel tormento fosse cessato, così, quando Al Jahar gli chiese ancora, imperioso " lo farai, Isshin?" egli rispose con un esanime, arrendevole si.
Svegliatosi di soprassalto, madido d'un sudore scuro, sanguigno, che gli infradiciava le vesti, si sollevò da quello che sentiva come un sudario e si mise ad un lavoro tanto febbrile quanto incontrollabile.
Per quella notte, e solo quella, comprendeva semplicemente tutto. Conosceva i segreti più impervi e le banalità più quotidiane, tutte contemporaneamente e nessuna migliore o peggiore dell'altra. Rideva sguaiato e feroce, tenendo gli occhi - le cui palpebre non si chiusero mai più - fissi sulla spola che guizzava come i serpenti di fumo del diavolo, da parte a parte, rapidissima, attraverso gli orditi del tappeto, che erano anche i destini degli uomini e molto altro.
All'alba del giorno che seguiva, la prima luce del mattino che filtrava dalla finestra ancora sbarrata scoprì un uomo dagli occhi lattiginosi e ciechi, scosso da un tremore inquietante, un rigolo di saliva sul lato della bocca ed un ghigno grottesco a deformargli il viso, seduto di fronte un tappeto piuttosto intricato ma non particolarmente bello.
Isshin rimase per sempre in quelle biasimevoli condizioni, quanto meno per il poco che gli rimase da vivere.
Aveva visto e riprodotto l'interezza dei progetti divini, aveva tentato di contenere nel cuore e nella mente, entità discrete, l'insostenibile mole dei pensieri di Allah ed aveva peccato dell'arrendevolezza alla conoscenza.
Il tappeto è tutt'ora esistente, conservato nella baracca d'un Kurdo di Turchia, usato a mo' di straccio, sotto pile di pentole di latta incrostata.
Neppure l'interezza della comprensione divina è utile all'uomo che vive fuori dai precetti di Allah.
Sia sempre gloria all'Altissimo.