L'affare di Braggadocio

Braggadocio, astuto commerciante, figlio di commercianti, pensava che forse avrebbe fatto bene ad abbracciare la sfuggente religione liberamente imposta dal libero Stato, come era di moda a quel tempo. Si, disse, potrei amare tutti gli uomini, nessuno escluso. Ma che ne verrebbe?
E si soffermò un poco sugli esiti che la sua filantropia avrebbe certamente avuto.
Con meticolosità avrebbe vestito e sfamato. Alacremente avrebbe ripulito e curato. Avrebbe di certo somministrato carità come prima aveva amministrato ricchezze.
Fece di conto qualche minuto. Tosto, si ravvide, avrebbe dissipato la propria fortuna. Cinque, sei mesi al massimo di santa attività, non di più.
E ciò era perché non si può gestire il bene comune col solo pensiero di farne fruttare il più possibile.
Ma Braggadocio continuò a calcolare. Avrebbe offerto tutto ciò che gli restava: il suo tempo. E poi? Una volta impegnato persino le ghette, e dopo essersi ridotto sozzo e trasandato come i poveracci che aiutava, cosa avrebbe fatto? Comprese all'improvviso che proprio nella ricerca della santità aveva tradito lo spirito più profondo di tale principio.
Nella volontà di aiutare tutti gli uomini, fardello esoso per due sole braccia, ne aveva piuttosto abbrutito e vituperato uno soltanto: se stesso. Così Braggadocio capì che perché la condizione di tutti fosse la più equanime possibile, bisognava che ci fossero taluni con più compiti e mezzi, e dotati di maggior importanza, la cui esistenza era presupposto e benedizione di molti altri.
Allora Braggadocio, piuttosto costernato, lasciò perdere e tornò a fare l'unico mestiere che conosceva. Rinunciò agli assurdi precetti che non parevano affatto curare le afflizioni del mondo, anzi, sembravano accrescerle poiché riducevano in miseria i benefattori.
Quel giorno fece ottimi affari, forse perché sentiva Dio dalla sua, dopo tutto il bene corrisposto al mondo.

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