L'uomo con la ciclette sulle spalle

Ieri notte, verso le due, sulla strada che scende dal cimitero di Mentana, ci stava un uomo strano che camminava accigliato sul ciglio della strada e si portava sulle spalle una vecchia ciclette di quelle che le zie corpulente, ingollando bignè, straziano guardando le telenovelas pigiando delicatamente con babbucce pelosissime e rosa.
Almeno la mia, di zia corpulenta, fa così. Ora, subito mi sono chiesto che ci facesse un tipo del genere, con un simile, improbabile fardello e tanto tardi la notte, per di più vicino a un cimitero.
Ho almanaccato un po', per poi giungere alla ovvia conclusione.
Il tizio era il figlio d'un noto ciclista italiano caduto in disgrazia che voleva esercitarsi per riguadagnare i consensi della gente e dello sport. Ma poiché, in seguito allo shock dovuto all'apertura d'un panettone, era diventato gravemente agorafobico, non poteva esercitarsi all'aperto. Così, il suo pelatissimo e diligentissimo figlio, aveva pensato di fargli dono d'una ciclette con cui poter quanto meno pestare qualche pedale, in attesa della guarigione, vaticinata con trepidazione per le prossime Olimpiadi.
Verosimile, certo, ma ciò non spiega l'orario e qualche altro particolare.
Il fatto è che il figlio del ciclista non possedeva una macchina sua perché, a causa dell'indole d'oro, aveva prestato l'unica vettura in suo possesso - una fiat scassona color cachi - al cugino, il quale doveva recarsi a Lourdes per non si sa quali peccati e invece s'era messo a fare il pellegrino in Romania dove, tra gozzovigli alcolici e crapulonerie poppute, aveva sfasciato pure quel catorcio. Così, l'uomo era partito all'alba per comprare la ciclette, completamente a piedi, e probabilmente stava facendo ancora ritorno, quando l'ho incrociato.
Così il mistero dell'uomo notturno con la ciclette sembrerebbe ragionato a sufficienza, seppure il finale della sua storia si perda tra l'inconoscibilità propria del caso e la volontà di non immaginare altro, perché anche i figli dei ciclisti caduti in disgrazia hanno diritto alla privacy.
La domanda però è un'altra, e nessuno se l'è posta, scommetto.
Che ci facevo "io" alle due di notte, sulla strada che scende dal cimitero di Mentana?
Questa storia, che è la mia e la conosco bene, non ho voglia di raccontarla.
Arrangiatevi.

La Bocca della Verità

La Bocca della Verità mente, se si guarda in uno specchio.
Perché lo specchio nello specchio non è né vero, né falso: è semplicemente incomprensibile.

La mano del dio pasticcere

Si sente. E' nell'aria il cambiamento, la mutevolezza, la commistione.
La farina freme e sbuffa come una zia pedante... nuvolette soffici e polverose di doppiozero eruttano a cadenza regolare dal pacco e imbiancano la credenza in cucina.
Il burro già si scioglie nel frigorifero, come se non potesse aspettare oltre, come se avesse impazienza di attendere le mani che lo impasteranno.
La cioccolata vibra nervosa e si rompe in scaglie e l'acqua è già due o tre gradi più tiepida, come se gli atomi che la compongono cozzassero e premessero per essere i primi fortunati a gettarsi nel bagnomaria.
Lo zucchero è l'unico che attende contegnoso, perché ha altro a cui pensare, quel venduto che va un po' con tutti e ci va tutto l'anno.
E' davvero come se la donna che preparerà questi ferri di cavallo sia solo l'ultimo tassello, il simbolo d'una trama più grande che la Natura teneva in serbo, la mano d'un qualche dio pasticcere fatto donna che non solo spezza il pane e rende grazia, ma se lo inforna pure. Quasi, pare che questi ingredienti, in un impeto di casualità, avrebbero potuto scontrarsi assieme e rendersi biscotto come gli antichi amminoacidi, nei tempi remoti, s'abbracciarono per creare amore e vita.
Ed il mio stomaco, anch'esso prostrato verso l'ineludibile futuro, già s'agita e ruggisce come uno spirto guerrier, al solo pensiero del profumo di quei simulacri di divinità coperti di cioccolata.

Il paradosso dell'elfetto stronzo

No, ti giuro che non ti sto affatto prendendo per il culo ripeteva l'elfetto stronzo mentre si grattava la chiappa sinistra.

E gli elfi, si sa, si grattano sempre la chiappa sinistra, mentre ti prendono per il culo.

Il dentista macellaio

Il macellaio, che a tempo perso faceva il dentista, preparava due fettine (tagliate fini) di gengiva e 3 etti di segatura di denti da rivendere come polvere di corno di rinoceronte ai cinesi, che lo rivendevano come afrodisiaco ai pazienti del macellaiodentista.
E mentre armeggiava con spiedi, scimitarre e trapani a doppio maglio perforante, la popputa assistente, intenta a passare gli strumenti alla mola, ripeteva candida la gente non usa il filo interdentale correttamente. Si fanno sempre le feritine col filino tra i dentini.
Nel mentre, il dentista aguzzino giocava allo scalatore aggrappandosi agli uncini che picconava tra un dente sano e l'altro.

La pecora nera (favola che c'ha pure la morale)

Oggi ho voglia di parlare dell'antico e potente paese di Manduria, dove le vacche trascinavano tette tanto intrise di latte che la gente lo usava per farci li bagno perchè l'acqua costava più cara, quando si ricordava di arrivare.
Quella gente era buona e gentile, prona alla battuta e alla focaccia, entrambe ammorbidite dal loro buon vino Primitivo, che si usava pure per tingere le stoffe, tanto era abbondante e cocchino.
Ma tanta mangereccia opulenza non voleva dire che tutti ne potessero godere, tant'è che in un trullaccio cadente che pareva un semplice ammasso di pietre ammonticchiate da Dio, stava una famiglia di pastori atipici e precari.
Atipici perché un pastore senza pecora è un po' inutile e si muore pure di fame. Precari perché Peppo della rovina -così si chiamava il babbo-, non possedendone di proprie, era costretto a farsele imprestare dai mezzadri, per poi ripagarli con servizi, aratura e formaggi pecorecci. Peppo della rovina, taciturno e un po' burbero ma buono come il pane di Altamura, lavorava e lavorava, senza mai stancarsi, perché voleva comprarsi bestiame tutto suo. Riteneva che le grandi fortune stessero nei posti più impensati, e che serviva solo scovarle. Ma la moglie, donna poco comprensiva e di natura spicciola, soleva rispondergli tu sei un marito buono a nulla, la pecora nera della famiglia. Ah, avessi sposato tuo fratello, al posto tuo! Ora me ne starei a Policoro a fare i bagni. Ma Peppo non si scoraggiava, e portava a casa ogni giorno un tozzo di pane, due pomodori secchi e qualche oliva, così da sfarmare sua moglie, o tapparle la bocca per non sentirla più.
Ora, era successo un giorno che un signorotto dai facili entusiasmi avesse infine e dopo immani attese maritato la figlioletta Enzina, la quale, benemerita al pari d'una santa, era però racchia e baldracchia al pari d'una scolopendrona, così che quando un pretendente s'era fatto finalmente avanti, quell'uomo quasi ne ebbe un colpo.
Per la gioia d'aver messo in isposa la figlia dopo tanto penare, l'uomo era in preda ad una tale euforia da giurare di fronte l'aureola di San Cataldo che avrebbe fatto un dono al primo che il caso avesse portato sul suo uscio.
Proprio quella mattina, manco a dirlo, batteva alla porta del mezzadro l'uomo più improbabile di tutta Manduria, proprio lui, Peppo della rovina, passato di lì per chiedere un lavoro, una pecora o entrambi.
Il vecchio non si pentì affatto del voto promesso e acconsentì di buon grado acché quello, in quanto primo capitato al suo uscio, ottenesse ciò che chiedeva, qualunque cosa fosse (però, con una risatina nervosa aveva aggiunto pure di non esagerare).
Ma Peppo era uomo semplice e modesto, che mai avrebbe abusato di tanta inaspettata fortuna. Allora si volse al gregge, per scegliere l'esemplare che avrebbe dato inizio alla sua fortuna. C'erano agnellini dall'aria spaurita, vecchie capre brontolone e pecore dall'aria imbambolata che, pure se messe davanti a un ekidna mannaro sulla luna, avrebbero continuato a masticare eternamente con quell'aria rincoglionita.

D'improvviso ne indicò una. Ed il vecchio chiese e richiese conferma, interrogandosi sul serio se non fosse uno scherzo. Il pastore senza pecore, senza aggiungere altro, assentì con vigore: indicava proprio una graziosa pecorella nera che ruminava in disparte in un calanchetto. La moglie, quanto a questo, si infuriò come mai era accaduto. Un'occasione così, dopotutto, capita assai di rado, e lasciarla sfumare in modo tanto sprovveduto era un comportamento irresposanbile. Una sola pecora, e per giunta negra si lagnava la donna, e come ti aspetti di tingerla, quella lana? Sei un incapace! Perché non ho sposato tuo fratello?Anzi, sai che faccio? Me lo sposo!
Fece i bagagli, involò i risparmi, imbavagliò la figlia bamboccia, e partirono per la città, lasciando il poveretto e la sua bestiola là, senza parole uno, e indifferente l'altra.
L'uomo allora prese la pecorella e la condusse affettuosamente a brucare un poco di erba nuova, sempre silenziosamente, nel bel tramonto che colava purpureo e pastoso come Primitivo. Si stette lì, seduto sui nodi d'un ulivo centenario, a godersi la scena virgiliana quando, ad un tratto, un bagliore catturò la sua attenzione. Doveva trattarsi d'una svista, certamente, eppure aveva avuto l'impressione di scorgere quel riflesso paglierino che brilluccicava anche nel sorriso porcino del sindaco. Si chinò, raccolse una pallocchia di cacca ancora calda che la pecorella aveva appena snocciolato, la ripulì un po' e dentro vi trovò una pepita d'oro grossa come un cecio. Con foga, la prima foga della sua vita, ne raccolse un'altra e un'altra ancora. Vi trovò pepite, lievemente più piccole, ma indubbiamente, inequivocabilmente pepite d'oro. Tanto oro, una montagna d'oro nascosta nella cacca.
Quella sera Peppo della rovina festeggiò con tanto Primitivo e fumante calzone di cipolle; e un po' ne offrì pure alla pecorella nera che aveva fatto la sua fortuna, la quale da allora non avrebbe fatto altro nella vita che mangiare e mangiare e mangiare e mangiare.
E Peppo comprese la morale della sua storia, e cioè che non tutti quelli che nascono pecora sono adatti a fare la lana. E che una pecora che non fa lana, magari, sa fare altre cose.

La menzogna di Teopompo

Io, Teopompo, istrione di Berenice, confido nella verità, che più d'ogni altra cosa bramo.
Proietto me stesso nel Mondo come il pescatore lancia la rete, perché dio, che sono io e ogni altro uomo, possa conoscerlo.
Siamo organi d'un qualche dio, noialtri, e niente più.
Occhi, orecchie e cuori, ecco cosa. Non siamo altro che miliardi di occhi, orecchie e cuori, che s'allungano verso un fine soltanto: esplorare e toccare la realtà.
Ed infine ricordarla.
La memoria di dio, che sono io e ogni altro uomo, è la somma dell'umana rimembranza. Ed io non voglio perdere neppure la più pulviscolare, trascurabile briciola, di quanto m'è dato avere ora e per sempre. 

Perché anche io sono dio.

Apollodoro, Bis Mendax, XLV

L'affare di Braggadocio

Braggadocio, astuto commerciante, figlio di commercianti, pensava che forse avrebbe fatto bene ad abbracciare la sfuggente religione liberamente imposta dal libero Stato, come era di moda a quel tempo. Si, disse, potrei amare tutti gli uomini, nessuno escluso. Ma che ne verrebbe?
E si soffermò un poco sugli esiti che la sua filantropia avrebbe certamente avuto.
Con meticolosità avrebbe vestito e sfamato. Alacremente avrebbe ripulito e curato. Avrebbe di certo somministrato carità come prima aveva amministrato ricchezze.
Fece di conto qualche minuto. Tosto, si ravvide, avrebbe dissipato la propria fortuna. Cinque, sei mesi al massimo di santa attività, non di più.
E ciò era perché non si può gestire il bene comune col solo pensiero di farne fruttare il più possibile.
Ma Braggadocio continuò a calcolare. Avrebbe offerto tutto ciò che gli restava: il suo tempo. E poi? Una volta impegnato persino le ghette, e dopo essersi ridotto sozzo e trasandato come i poveracci che aiutava, cosa avrebbe fatto? Comprese all'improvviso che proprio nella ricerca della santità aveva tradito lo spirito più profondo di tale principio.
Nella volontà di aiutare tutti gli uomini, fardello esoso per due sole braccia, ne aveva piuttosto abbrutito e vituperato uno soltanto: se stesso. Così Braggadocio capì che perché la condizione di tutti fosse la più equanime possibile, bisognava che ci fossero taluni con più compiti e mezzi, e dotati di maggior importanza, la cui esistenza era presupposto e benedizione di molti altri.
Allora Braggadocio, piuttosto costernato, lasciò perdere e tornò a fare l'unico mestiere che conosceva. Rinunciò agli assurdi precetti che non parevano affatto curare le afflizioni del mondo, anzi, sembravano accrescerle poiché riducevano in miseria i benefattori.
Quel giorno fece ottimi affari, forse perché sentiva Dio dalla sua, dopo tutto il bene corrisposto al mondo.

Il fiore di gomma

Questo fiore del rosso più gagliardo è finto. E' di gomma e lo sa. E' piatto, elastico e trasparente. Sta appiccicato al vetro d'una finestra, sull'angolo basso, e là è sempre stato.
Non profuma, non balla col vento, non sfida la neve e non innamora neppure le api. Sta lì.
Sta solo e semplicemente lì. Vorrebbe tanto essere vero, e invece gli è toccato un destino diverso.
Una margherita di campo fa vita sana e serena, una rosa vive grandi passioni e tragedie, un crisantemo consola contegnoso mentre un'orchidea, come un'amazzone, cavalca solitaria ma regina un intero mazzo di fiori.
Per il fiore di gomma tutto questo ha il sapore del sogno, o del mito irrununciabile.
E' bravissimo a starsene aggrappato lassù, per carità. Mai un tentennamento, né un cedimento.
Ma come si fa a dire che è bravo, se non gli si fà fare che quello?

La Pia vecchietta

Ieri, appena scesa dall'autobus, mi adocchia e mi punta una vecchietta sdentata. Mi dice: Ma Lei.
Io odio quando mi fanno ma lei punto.
Mica sarà uno di quei senzadio che s'incontrano oggi che ne ho incontrato uno proprio stamattina,infatti, -Dio lo perdoni- che non pregano, non portano il Segno Divino e non hanno neppure la Bibbia a casa. Come si chiama Lei?
Odio le persone che danno del Lei con la maiuscola.
Panulfio, le faccio impassibile, seppellendo per sempre quella risata sotto lo stomaco.
Peccato, ero più devota a S.Lorenzo, ma per questa volta voglio darLe un'occasione lo stesso.
Intavola una ventina di minuti di chiacchiere sulla sua conversione e sugli errori della scienza che coltiva i bambini al freddo. I bambini nati dal freddi, secondo la pia donna, sono quelli concepiti tramite fecondazione artificiale.
Ma Lei. Studia? Le do una Tesi, guardi. Gli effetti del freddo sui bambini nati dal vetro.
Granitico e distaccato -non la liquidavo per il semplice fatto che aspettavo il 63 - le dico che non studio biologia.
Altri cinque minuti di tiritera sui giovani, il lavoro e le sue idee sulla precarietà. E conclude mbeh, uno mica può cercare di lavorare, Le pare? Uno lavora o non lavora. Che è 'sta novità di questi ragazzi che cercano di lavorare? Ma Lei. Lei mi diceva che scrive. Che lavoro fa?
Cerco di lavorare
, le confesso tignoso, fustigando il demone della ridanza che chiama a raccolta le sue falangi. Tenta di lasciarmi l'Avvenire, il giornale, non trecento mila euro che di sicuro me l'avrebbero garantito, un avvenire. Diniego gentilmente.
Allora almeno prenda questi Salmi. Sa, non sono quelli che lessi che mi fecero cambiare la Strada. Però almeno si fa una cultura. Un uomo non deve mai avere paura di conoscere.
E gli esperimenti sugli embrioni non sono conoscienza?
NO! Quasi le parte uno dei tre denti rimastile. Ma poi, quante maiuscole usa, quando parla? E capisco che io non sarò mai profeta, io che le maiuscole le evito il più possibile. tiè. a sfregio. così impara.
Lei deve capire conclude, mentre finalmente scorgo il 63 in lontananza, è fondamentela che restiamo sulla Retta Via. Perché se uno nasce in un paese di quelli là che non c'hanno Dio, allora va bene. Ma se uno vi nasce, allora deve, deve, deve seguire la Strada Maestra che porta alla Santità Divina.
E dove sta scritta, sulla Bibbia, questa cosa?
Che c'entra,
mi fa con l'infinita pazienza di chi è costretta ad ammansirne cento ogni giorno, di pagani come me.
L'autobus mi è quasi davanti. Scalpito per farmi strada. Neppure l'educazione mi trattiene più, poveretta.
Ma Lei. Lei  le tremola la voce assieme ai denti nel dire quel Lei. Lei, se non è Cristiano e Credente, quale Sacro Segno di quale Grande Religione porta indosso? Mi interroga enfatica.
Il mio. Arrivederci.
E, col primo passo sul gradino del 63, ritorno alla realtà.

La Mucca Mannara

In un paese orroroso dove la gente parla lingue agglutinanti e mangia le sarde fritte per colazione, esiste una mostruosità che evoca conati di terrore solo a nominarla. La mucca mannara (questo è il nome della bestia) è capace con un solo morso di strappare tre teste o centoventi mignoli. Può, col suo fiero e terribile muggito, sconquassare i tetti delle case e scompigliare i capelli a Moira Orfei.
Ed è malvagia. Tanto malvagia che quando entra nelle catapecchie dei poveracci che intende scannare, non si pulisce mai gli zoccoli.
Eppure, anche creature di genìa così immonda soffrono le loro pene. E alla sera, infatti, compiute le sue sanguinose efferatezze, la mucca mannara ritorna alla sua tana ripugnante e lì, tra ammassi di ossa crocchianti e stralci di scalpi, si prende una camomilla digestiva perchè il sintetico non lo digerisce mica tanto, e le da sempre un gran mal di testa, poverina.

Chi si piglia

Chi si piglia, si assomiglia.
E' vera come l'originale.

Dico a te, mi senti?

Vieni qui.
Ma si, si, dico proprio a te. Vieni, dai.
Avvicinati un poco. Volevo solo mostrarti una cosa.
Scansa questi mucchi di ciarpame, ed ignora pure la polvere. Guarda.
Questo scrittoio tarlato è la mia carta, la mia storia, la mia ispirazione. E qui, proprio qui, c'è il cassetto che contiene i miei sogni. Guardalo.
E' chiuso a chiave,sai?
Ma forse ti interesserà sapere che neppure io che ce li ho rinchiusi, so che cosa c'è esattamente là dentro.
Ed il bello è che la chiave non ce l'ho io, ma il Tempo.
Scusami, se rido. Ma è una vita ria, quella che ti consegna miracoli confezionati in blocchi di cemento armato.
E ti giuro su questo cuore che l'avrò domo. Cemento e cassetto.
Chiedi perché ti racconto tutto ciò?
Non so neppure questo, e, forse, me lo merito davvero.

Trittico di iPhone a Enzimi '07

I due figli dell'imperatore spiantato

I due figli dell'imperatore spiantato si lagnavano delle proprie, regali mansioni. Troppe cerimonie, infiniti festeggiamenti, innumerevoli parate, interminabili cene e simposii. Ciò non potermetteva loro di dedicarsi con sufficiente anima alle loro passioni. L'infanta adorava i gatti e la lira endecacorde. Suo fratello la caccia alla volpe di fuoco e le donne.
Se ne dolevano ad ogni ora del giorno e della notte, e in ogni occasione, anche la meno adatta.
Una volta persino durante il Cordoglio Imperiale, indetto d'urgenza per rendere onore ad alcune terribili vittime d'una miniera dell'Est tragicamente crollata.
Il figlio d'uno dei minatori rispose loro andate a fare in culo. E si congedò.

A colloquio con Dio

Questa mattina presto sono stato convoncato da Dio. Lo so, fa ridere, ma niente Arcangeli, ne messaggeri divini.
Mi è semplicemente arrivata una mail ieri sera dall'indirizzo più meraviglioso che si possa immaginare. Era evidente che non fosse qualcosa di terreno, eppure non osai credere ai miei occhi quando lessi nell'oggetto Fatigo ut Mihi colloqueris. Due, le cose che mi incuriosirono da subito. La prima, che Dio si riferisse a se stesso con la maiuscola. E la seconda, che in principio di mail c'era un undisclosure agreement da accettare prima di poter procedere con la lettura vera e propria.
Ad ogni buon conto sono qua, seduto in ufficio tutto bianco. No, non è tutto bianco, è luminoso. Ma la luce non viene dagli oggetti, ma da dentro me. Anche se è improprio, ciò che dico. Non ci sono oggetti, in effetti qui. Diciamo che si intuiscono volontà e fini, ecco. Ma oggetti nel senso vero del termine non ce ne sono, direi. Anche se in effetti sono seduto, ora.
Ma più che seduto, direi che sto comodo. Come se fossi seduto sull'idea di una sedia. Ma forse sono ancora nel mio letto e qualcuno mi ha passato la droga nella peperonata di ieri sera. O forse, non c'è stata nessuna droga; si sa che i peperoni, dopo le due del pomeriggio diventano dinamitardi, infingardi, perenni e allucinogeni, come i nostri politici.
Finalmente è arrivato Dio. Cioè, è presente, non è che è arrivato e si è seduto. Anche perchè non ci sono strade o porte da cui poter arrivare. Ma poi c'era anche prima, solo che mi lasciava solo ai miei discorsi. Ora, invece, c'è. Decisamente c'è. Mi scruta dalle sue altezze vertiginose, sento la sua attenzione precipitare su di me e attraversarmi. E sento la pelle ispessirsi appena, come a un venticello estivo.
Dio, guardi, mi spiace molto di tutti i peccato commessi, non so cosa dire. A volte la società e le paure ci portano ad agire in modo sconsiderato, dico io portando subito le mani avanti. Tanto qualche colpa per andare all'inferno cel'abbiamo un po' tutti. Altro che pentimento, penso, qua mi sto arruffianando Dio. E tremo al pensiero che tutte queste cirnconvoluzioni non avvengono furtive e in sordina, ma agli occhi di Dio è come se fossero su uno schermo del cinema panoramico, col dolby digital e il popcorn alla poltrona.
Dio è benevolo e prende la parola. Anche se non è che parli, in effetti. Diciamo che capisco i motivi per cui mi trovo lì. E, dopotutto, sono piuttosto evidenti. Finalmente mi tranquillizzo.
Ti chiedo scusa.
Dio che chiede scusa a me? E per cosa? Per il male che subiamo?Per le guerre? La morte?Un segreto inconfessabile?
Ti chiedo scusa per la mail di ieri. Per errore è stata recapitata in ritardo, ma abbiamo problemi coi server, in questi giorni.
Rimango intedetto. Assumo un tono professionale e faccio Ah.
E' che Sant'Eligio sta ancora facendo i corsi d'aggiornamento e Unix mica si impara dall'oggi al domani, ti pare?
E beh,
rispondo affatto convinto.
Poi non ti rammaricare per la richiesta di secretare questa conversazione. So che vuoi scriverne e che lo farai. Ma sono cosette burocratiche, di routine, quindi non ci badare. Semmai, eviterei di divulgare il mio indirizzo mail. Sai, lo spam...
Non riesco neppure a dire Ah, stavolta. Annuisco con poco vigore.
Ma veniamo a noi, adesso. Il motivo per cui ti ho convocato qui è questo. Voglio farti una domanda.
Mi scuoto visibilmente. Dio che mi domanda qualcosa è uno scenario che mai avrei paventato. E che potrebbe domandarmi, Lui che tutto conosce e tutto sa?Boh.
Si, si, lo so, ti domanderai che cosa potrei mai chiederti proprio Io. E si fa l'equivalente divino di una risata. Ma ciò è necessario per ispirarti.
Lo guardo un po' preoccupato, e mi fa Lascia fare, e sta' tranquillo, conosco il mestiere. Mica sono nato ieri.
Non so più che pesci pigliare, annuisco a tutto, oramai.
Ciò che avevo a sapere da te è questo: se fossi a colloquio con Dio, cosa gli chiederesti?
Ah bè,
farfuglio, ah bè.
Un piacevole muro fatto di benevolenza e pazienza eterna mi si parò davanti.
Una cosa ci sarebbe. L'ho sempre voluta sapere. Lo so, sarà sciocca, ma non mi veniva niente di meglio, al momento. La guerra, l'amore, la fede, si vabbè, la fisica quantistica, che ne so. Oramai tanto è andata.
Gli ho chiesto Ma secondo Lei. Dico, secondo Lei.
Temporeggio per cercare le parole giuste e poi erutta la domanda sbagliata, inarrestabile, come un conato.
Secondo Lei, io sbaglio sul serio a fare la parmigiana di melanzane con le zucchine, invece che con le melanzane? Tutti dicono così ma io non ci credo. Sa, non le digerisco, le melanzane...
Sei saggio
, mi risponde Dio, e giacché ciò che chiedi è sensato, te ne darò la risposta.
Sarà volato via qualche secolo, nel mentre, e aggiunge, non è importante come fai la parmigiana. Purché il cielo sotto cui la fai, sia sempre azzurro. E mi congeda.
Interdetto, confuso, vagamente offeso da principio, ho capito una cosa toccante. Anche a una domanda sciocca, ecco cosa ho capito, ci può essere una risposta intelligente.

L'eterno lui e lei

Lui: Basta, non funziona più,lasciamoci.
Lei: Ok, hai ragione.
Lui: E ci lasciamo così? Facciamo all'ammore l'ultima volta?
Lei: Va bene, ma 'sta volta io sto sopra.
Lui: D'accordo. Però la prossima volta decido io.